Quando raggiungo l’Audace il vento si gonfia e soffia freddo da non sentire più la faccia. Ecco, mi dico, la mia casa un tempo era fatta di mare e di vento. E di gabbiani. I loro gridi si inseguono e si perdono fatti a pezzi dalle folate gelide simili a pianti di bimbi o di donne senza speranza. C’è qualcosa di tragico in questa città, a vederla da qui. Mi accendo una sigaretta a fatica, il vento strappa scintille alle prime boccate. Sarebbe bello se lei fosse qui, ora, mi dico, proprio qui accanto a me, a vedere quello che vedo io, a sentire questo freddo buono e duro tra i capelli, come la prima volta. Non ho mai visto Trieste, mi ha detto allora raggiante, e la sua bellezza feroce e inspiegabile, e il cielo bianco oltre gli alti palazzi che i suoi occhi hanno riflesso e acceso in un’unica vampa improvvisa, mi hanno fatto pensare che nemmeno io l’avevo mai vista, non ancora. Poi la città ci ha abbracciati nella sua maglia larga e ariosa di vie e di pietre e di facciate chiare, e la nostra era quasi una corsa, insensata quanto le risate che ci lasciavamo rubare dal vento, fino a quando il mare non ci si è aperto davanti, levandoci il fiato, ignoto e senza misura, ancora una volta come qualcosa che mai avevamo veduto, mai prima di allora. Nel punto estremo del molo era come se il vuoto davanti e attorno e sopra di noi fosse uno spazio intatto e puro che attendeva solo un gesto, anche solo un pensiero abbozzato per diventare altro, un piano su cui disegnare qualcosa che non aveva una forma né un nome, non ancora. E la smisurata massa d’acqua che dondolava e picchiava la testa contro i conci squadrati della banchina, la stessa che lontano muoveva la linea dell’orizzonte fino a confonderlo e cancellarlo e diventare cielo, non era una minaccia, ma sembrava chiamare quieta e scintillare limpida come un’occasione, una possibilità. Mi sembra che è così che vorrei che fosse sempre, ha detto lei. Solo questo. È stato allora che ho capito che non sarei più stato io, né lei sarebbe più stata lei.