Sotto un ombrello di pioggia, la casa di vicolo Gorizia non sorride, come le altre del borgo, delle luci accese in cucina, e delle spie dei frigoriferi e dei telegiornali nei televisori. Dentro la sua pancia, fatta di stanze, niente più quadri, mobili, niente più orologi alle pareti a segnare l'ora di riempire le ciotole di cereali, prima di mandare i bambini a scuola. Niente più calendari su cui appuntare la visita dal dentista, niente più specchi, dischi, tappeti e lenzuola: un animale invecchiato e senza interiora. Solo il tempo – proprio qui che non serve a nulla, proprio qui che avresti scommesso si fosse fermato come un orologio azzoppato – è rimasto ad abitarla, da quando la famiglia ha traslocato dopo aver aspettato per dieci anni me, scappato di casa, che tornassi anche per cena. Stasera faccio ritorno qui. Sulla cassetta delle lettere c'è ancora il mio nome, e nella toppa girano ancora le chiavi del mazzo che duplicò mio padre: soltanto il posto a tavola è caduto in prescrizione.