Crescendo nell’epoca del punk, era per noi chiaro che vivevamo alla fine di qualcosa - della modernità, del sogno americano, dell’economia industriale, di un certo tipo di urbanistica. L’evidenza ci circondava, sotto forma di rovine della città lotti vuoti come denti caduti, accompagnavano con un ghigno sordo le strade abbandonate dai ricchi, dalla politica, da una certa visione del futuro. Le rovine urbane erano il luogo emblematico di quest’epoca, i posti che offrivano al punk parte della sua estetica, e come molte estetiche anche questa conteneva un’etica, una visione del mondo con un mandato su come agire, come vivere. Cos’è una rovina dopo tutto? È una costruzione umana abbandonata alla natura, e una delle caratteristiche delle rovine in città è il loro aspetto selvaggio: sono luoghi pieni di promesse e di incognite, con tutte le loro epifanie e i loro pericoli. Le città sono costruite da uomini (e in una misura minore da donne) ma decadono per natura, per terremoti e uragani, in un processo di disgregazione, erosione, ruggine, di attacco dei microbi al cemento, alla pietra, al legno e al mattone.