St. Louis, agli albori del ventesimo secolo era una città industriale trainante, oggi è una delle città più pericolose degli Stati Uniti d'America. Negli ultimi anni sparatorie e omicidi sono largamente aumentati a causa dell'arrivo dei cartelli della droga messicani in affari con le gang locali per la vendita di eroina a basso costo. Dagli anni Settanta la lenta ma inesorabile contrazione del lavoro industriale ha causato una crescente regressione economica e la periferizzazione della città. Il risultato del vuoto demografico, combinato con la deindustrializzazione, ha portato alla decadenza della città. Molti lavoratori bianchi si sono allontanati dalla crescente popolazione nera. L'esodo dei bianchi e la ghettizzazione della comunità nera hanno provocato un esponenziale decadimento urbano, una segregazione razziale e una diseguaglianza di reddito con pochi eguali nel Paese.
"Niggers do not let the sun go down on you", questo il motto affisso nei cartelli ai primi del '900 accanto al nome di numerose città statunitensi, le cosidette "Sundown Towns", dove risultava altissimo l'indice di segregazione tra bianchi e neri. L'allora crescente ghettizzazione dei neri in alcuni sobborghi e in alcune periferie è ancora oggi un nervo dolorosamente scoperto. Anche qui, anche ora. La perdita di senso civico e comunitario, i nostri chiusi ghetti mentali, un'identità incerta e frammentata, una società con anticorpi troppo deboli ci riportano alle stesse storie vissue nei quartieri neri americani.
Dopo numerosi viaggi a St. Louis e con l'idea di legare l'indice Gini (una misura statistica di disuguaglianza, utilizzata anche per misurare la segregazione residenziale) gli autori, Piergiorgio Casotti ed Emanuele Brutti, hanno deciso di non puntare l'indice sugli stereotipi e sui segni macroscopici della povertà e della violenza ma di ricreare le medesime sensazioni attraverso le pagine del libro. Un accumulo seriale e metodico di strati e detriti che rafforzano la sensazione di disagio, fallimento, assenza. Il nero, su cui Fiorenza Pinna ha costruito il concept e la grafica del libro, in equilibrio tra mancanza ed eccesso, non ci fa scendere vorticosamente verso l'abisso ma si insinua lentamente sottopelle, fino a farci percepire una sospensione latente, una tensione crescente. Un disagio, una solitudine, un senso di disillusione e di incomunicabilità ci accompagnano poi durante l'intera lettura. Una partitura che si manifesta gradualmente nella mente più che prendere corpo in modo esplosivo o muscolare. I piani di lettura delle fotografie di paesaggio e dei ritratti, in bianco e nero e a colori, vengono supportati da una narrazione non solo letteraria ma cinematografica. I testi hanno valore complementare e non subalterno rispetto alle immagini, creano relazioni inedite e cercano di portare un pò di luce, al di là della coltre scura e impenetrabile del nero.
Gianpaolo Arena
Intervista
CASOTTI/BRUTTI
Gianpaolo Arena: Potreste dirci qualcosa in più su come è cominciato il vostro progetto "Index G"? Quanto tempo è stato necessario per la mappatura, la documentazione, i viaggi? Avete iniziato il progetto con l'idea di fare un libro? Piergiorgio Casotti: Inizialmente, nel 2015, avevo l'idea per un nuovo progetto legato alle "Sundown Towns" negli Stati Uniti, città, spesso piccole o piccolissime, nelle quali non veniva garantita la sicurezza ai neri dopo il tramonto. Erano numerose ai primi del '900 e per i decenni successivi fino alla legge contro il razzismo; ma ancora oggi, secondo alcuni, sono presenti. Tutto è iniziato da qui e così ho coinvolto Emanuele Brutti. Per diversi mesi abbiamo fatto ricerche per "quel" progetto, contattato qualche giornalista/blogger ed in particolare il professor James W. Loewen, grande studioso di tale fenomeno. Ci siamo resi conto però che quel tipo di progetto era da abbandonare, troppi i rischi di stereotipare il lavoro e le foto. Fortunatamente però nel corso delle ricerche (che erano passate anche dalla lettura di decine e decine di report, articoli ecc.) ci siamo imbattuti in una ricerca universitaria che ha fatto scattare qualcosa. Una ricerca sulla crescente MACRO-SEGREGAZIONE dei neri. Contemporaneamente io volevo da anni fare qualcosa legato all'indice di Gini e così ... ecco la combinazione giusta. L'idea iniziale era proprio quella di fare un libro, ma un libro NON solo fotografico ma anche "testuale", dove il testo (che nel libro prende forma con una sceneggiatura cinematografica) doveva avere la stessa importanza delle foto, essere la sua complementarietà. Siamo così partiti per St. Louis (6° città più segregata degli USA) con alcune idee in testa ma dopo il primo viaggio ci siamo resi conto che ciò che ci immaginavamo non era presente visivamente ma solo percettivamente. Durante il secondo viaggio abbiamo fatto molto brain storming per cercare di capire e quindi seguire la via giusta. Index G però non vuole raccontare visivamente la segregazione ma affrontarla in modo diverso, su un piano prettamente mentale (e forse unilaterale) cercando il non senso nello status-quo socio-razziale americano. Volevamo evitare tutti gli stereotipi associati alla segregazione afro-americana e agli afro americani stessi. Nessun quartiere povero, nessun bambino senza scarpe che corre in strade deserte con estintori che spruzzano acqua, nessun parallelo/confronto con i bianchi, niente di tutto ciò. Silenzio, incertezza, assenza sono le parole che guidano il libro. È sulla percezione sottile del fallimento (umano) e sulla disillusione che questo lavoro si concentra. L'idea di una discontinuità tra sistemi spaziali umani adiacenti.
Emanuele Brutti: La prima idea è nata nel 2015 ed è partita da Piergiorgio Casotti che ha voluto condividerla con me. Inizialmente volevamo lavorare ad un progetto riguardante le "Sundown Towns", città sorte negli USA nei primi del '900 in cui non veniva data possibilità di vivere ai neri. Si chiamavano così perché spesso accanto al nome della città veniva affisso un cartello che diceva "Niggers don't let the sun go down on you". Uno dei principali studiosi del fenomeno è il prof. James W. Loewen che ne ha scritto diffusamente e ha mappato queste città e che afferma che le "Sundown Towns" esistono ancora oggi. Nel frattempo però ci siamo resi conto come procedere su quella via potesse rendere il lavoro troppo scontato e la svolta che ci ha fatto definitivamente cambiare idea è stata la scoperta di numerosi articoli accademici riguardanti statistiche sulla segregazione residenziale. Abbiamo iniziato ad approfondire lo studio del fenomeno, aiutati dal fatto che Piergiorgio è laureato in statistica, e abbiamo capito che quella poteva essere una scelta giusta per parlare di un fatto contemporaneo e cercare di farlo in una maniera non scontata. Da subito volevamo realizzare un libro che non fosse "solo" di fotografie ma che contenesse anche una parte testuale che potesse sposarsi alle immagini. Per quanto riguarda la scelta della città abbiamo deciso di andare a St. Louis perché spesso nelle statistiche che leggevamo era citata ai primi posti in senso negativo per quanto riguarda la segregazione; nel 2016 abbiamo fatto il primo viaggio dal quale siamo tornati con delle foto che, in parte, non rappresentavano quello che noi ci aspettavamo di trovare. Quindi tra il primo e il secondo viaggio (fatto nel 2017) abbiamo cercato di capire il perché non eravamo soddisfatti di quello che avevamo portato a casa e ci siamo resi conto che dovevamo lavorare più sulle sensazioni di quello che poteva o stava succedendo piuttosto che andare a cercare qualcosa di preciso. Quello che abbiamo cercato di fare è stato innanzitutto evitare qualsiasi tipo di stereotipo che potesse riguardare la segregazione bianchi/neri e allo stesso tempo lavorare sulle sensazioni di disagio, solitudine, distanza, separazione che avevamo provato nei nostri viaggi.
GA: Come è iniziata la vostra collaborazione con Fiorenza Pinna e Skinnerboox? PC: Ho iniziato a lavorare con Fiorenza Pinna nel 2013 quando, insieme a Chiara Capodici (allora TRETERZI), curò il mio primo libro "Sometimes I cannot smile". In realtà le contattai l'anno prima dopo averle ascoltate ad un incontro pubblico tra più editori. Il loro approccio e la loro "filosofia" mi colpirono da subito ed erano in linea con le mie idee. Poi con Fiorenza c'è ormai un sodalizio e un rapporto di fiducia e di grande interscambio di idee e stimoli e ha curato anche il secondo libro "Where does the white go".
EB: Questo per me è stato il primo lavoro nato con l'idea di farne un libro e quindi non conoscevo il mondo dell'editoria se non da appassionato di libri fotografici. Conoscevo Fiorenza Pinna perché avevo comprato due libri disegnati da 3/3 (quello di Piergiorgio "Sometimes I cannot smile" e "Saluti da Pinetamare" di Salvatore Santoro) e la scelta di affidarci a lei come book designer è stata naturalmente influenzata dal fatto che Pier ci avesse collaborato per tutti i libri che ha pubblicato. Per me è stato un incontro molto bello perché Fiorenza con il suo lavoro è entrata dentro al progetto ed è riuscita a creare un libro che rispecchiasse in pieno le sensazioni che avevamo vissuto a STL. La cosa bella è che con lei ci siamo sentiti anche mentre eravamo "sul campo" per cui è stata parte integrante del progetto libro da subito e probabilmente questo ha fatto sì che si creasse una sinergia particolare che ha portato alla creazione del libro in modo naturale. La collaborazione con Skinnerboox è nata a progetto finito quando abbiamo mostrato a Milo Montelli il dummy e lui ci ha proposto di partecipare alla realizzazione del libro.
GA: Quali sono stati i vostri libri fotografici preferiti degli ultimi anni? PC: Domanda difficile non saprei rispondere. Diversi ma non tantissimi...
EB: Sono un appassionato di libri fotografici. Con due colleghi e amici Francesco Biasi e Chiara Bandino gestisco a Verona Fonderia 20.9 una galleria fotografica che raccoglie la nostra collezione personale di libri per cui riesco fortunatamente ad averne a disposizione un'intera libreria e sceglierne pochi è davvero dura. Un libro a cui tengo molto per la delicatezza del tema che tratta e per come è fatto è "touch" di Peter Dekens. Più di recente "Margin of excess" di Max Pinkers e un saggio dal titolo "The photograph that took the place of a Mountain" di Taco Hidde Bakker.
Fiorenza Pinna
GA: In che modo avete sviluppato questa atipica collaborazione tra 2 fotografi e una designer? In che modo il designer ha supportato gli autori per veicolare il progetto fotografico ad un livello superiore? FP: In effetti di solito è un rapporto 1 a 1 fotografo - designer, in questo caso ci siamo trovati in 3, è stato bello, un processo piuttosto fluido. Collaboro da anni con Piergiorgio Casotti, INDEX G è il nostro terzo libro insieme, abbiamo un metodo di lavoro e un rapporto di fiducia ormai solido e aggiungere Emanuele Brutti è stato molto naturale e positivo per tutti. Abbiamo condiviso e scambiato molto anche durante i viaggi e non è stato difficile incontrarsi sul senso della ricerca e la sua possibile traduzione in libro. In questo lavoro ci sono molti piani e molti linguaggi: fotografie di paesaggio ritratti, interni, colore e bianco e nero, e poi i testi che sono importanti quanto le immagini. La cosa più complicata è stata trovare la chiave che mettesse insieme un progetto così complesso, dal punto di vista della sequenza e dell'oggetto. Costruire un progetto di libro coerente che si confrontasse in maniera solida con tutto ciò che questo lavoro richiama: la fotografia di paesaggio americana, la rappresentazione della segregazione razziale, etc… È un libro speciale per me: mette insieme tutto quello che abbiamo condiviso e sperimentato in questi anni con Pier e molti dei miei interessi relativi alla narrazione e percezione visiva e al fare libri. INDEX G non è un lavoro fotografico in senso stretto, o almeno non solo, nel farlo ci siamo rivolti più alla narrazione cinematografica e letteraria che alla fotografia e al libro fotografico in senso stretto. Quando progetto un libro cerco sempre di creare uno spazio di senso che possa, attraverso tutti gli elementi che lo compongono (impaginazione, carte, copertina, cromie, allestimento, etc…) veicolare al meglio il senso del lavoro… Un libro per me è sempre anche un lavoro di ricerca sulla percezione. Il concept del libro INDEX G ruota intorno al nero, alla percezione del nero e dei diversi neri, in rapporto alla luce, al bianco e agli altri materiali. Mi interessa lavorare sullo spazio del libro in maniera tridimensionale, cercando di portare il lettore all'interno delle possibilità volumetriche del materiale, della stampa e del colore. Sul nero di copertina la luce si ferma come a voler dare stabilità all'oggetto, nel layout delle pagine iniziali il nero è piatto e non molto profondo, divide ma in maniera morbida, mentre nelle pagine in bianco e nero lucide e sottili la pagina nera comanda, è una presenza forte. A volte riflette la pagina a fianco, o il viso della persona che guarda e si comporta come spazio concavo o convesso a seconda della luce e del movimento della curva della pagina. Nel libro come nelle foto Il volume del nero si impone sul bianco creando uno spostamento di senso anche linguistico.
GA: Un senso di sospensione e una tensione latente accompagnano il lettore nella visione del libro. Testo e immagini aumentano la sensazione di smarrimento. Ce ne vuole parlare? FP: INDEX G è un libro che va letto dall'inizio alla fine, una narrazione che si edifica per accumulo, è costruito come una struttura relazionale che fa dialogare più livelli all'interno di uno spazio di senso multiplo e variabile. È un lavoro sulla segregazione spaziale razziale a St. Louis ma anche un pretesto per parlare di temi più profondi e universali, come la sensazione di vuoto che si percepisce in uno spazio urbano iperpopolato e il fallimento umano nella possibilità di comunicare veramente. È questa discontinuità nella prossimità, come dice il titolo, il centro emotivo di tutto il lavoro.
Le parole di riferimento del lavoro sono sospensione, silenzio, incomunicabilità. Nel costruire il libro volevamo spingere il lettore verso una sensazione di ambiguità e spaesamento anche visivo: il non combaciare delle immagini, le prospettive falsate o esagerate, la prevalenza del nero, sono elementi che si sommano e stratificano nella direzione di uno sbilanciamento del senso e del linguaggio. Ogni elemento del libro è studiato per costruire un'esperienza ben precisa che si lascia chiaramente aperta al confronto con chi legge.
GA: Se alla fine del mondo dovesse salvare 5 photo books, quali sceglierebbe? E quali altre categorie di libri contiene la sua libreria? Chi sono i suoi artisti preferiti e perché? FP: Questa è davvero una domanda difficile.
Non so se riuscirei a scegliere che 5 libri salvare, forse a quel punto lascerei i libri di fotografia e porterei la letteratura, qualcosa da immaginare ogni volta in maniera differente. Le categorie della mia libreria sono: libri di viaggio, fotografia, letteratura, arte, Yoga e poesia. Ci sono anche molti libri scelti perché interessanti come oggetti. I libri fotografici sono divisi per paese, classici contemporanei e poi c'è sempre una altissima pila sulla scrivania, una biblioteca mobile, di cose che sto rivedendo, studiando in quel momento particolare. Anche sugli artisti preferiti non è facile rispondere. Sicuramente Maria Lai è stata importante per me, come incontro personale e per il suo rapporto con la tradizione e l'utilizzo del libro e di altre forme arcaiche e femminili come il pane, la tessitura e il cucito. Gordon Matta Clark per la sua visione dello spazio e dell'architettura, da Godard e Fellini ho imparato quasi tutto del mio lavoro, in associazione libera aggiungerei Munari, Smithson, Shubert, Emma Dante e Bjork.
Piergiorgio Casotti
Born in 1972 and graduated with a degree in Economics, I've always been attracted to the dynamics of human beings; Since I first discovered photography, I've seen it as a mean that allows me to explore both the world and myself at the same time. It's been an indissoluble link ever since. What I photograph always has something to do with me; it's about knowing my intimacy, facing my fears by experiencing other worlds and lives. I use the same empathetic method with my life and photographs: tearing up the concept of "beautiful" or "ugly" and looking for images "to be experienced", not just "looked at". I try to create complex projects in order to express the complexity of the world and life: images and texts, videos and music; I try to break old patterns and move borders further; I'd like to tell stories, states of mind and experiences that have little to do with aesthetic standards; I'd like to tell stories of lives that, even through the language of photography, scratch the surface of things digging for what the eye cannot meet – and sometimes revealing it.
Emanuele Brutti
Born in 1984 in Verona. Photographer. Founder with Francesco Biasi and Chiara Bandino of Fonderia 20.9 a lens based gallery who deals with contemporary photography.