Landscape Stories: Buona parte del suo lavoro musicale e delle sue performance mostra un interesse esplicito verso i suoni e gli elementi dell’ambiente, e ho sempre pensato a un suo approccio profondo, interessante e personale alla definizione dell’arte come “imitazione della natura nel suo modo di operare”, che anche John Cage amava citare. Solo per citare alcuni lavori, penso ai Piano Transplants, alle mappe sonore dei fumi, e alla recente partitura per Jitterbug. Ci può raccontare del suo modo di relazionarsi all’ambiente, al paesaggio, e alla natura? Quando e dove è cominciato, come si è sviluppato, ed è cambiato negli ultimi tempi? Annea Lockwood: Mi sento fortunata ad essere nata a Christchurch, in Nuova Zelanda, figlia di un padre la cui passione era l’alpinismo, motivo per cui passavamo molto tempo sulle Alpi neozelandesi, e questo è stato un insegnamento profondo, sebbene intangibile. È da qui che è iniziata anche la mia fascinazione per i fiumi. Si imparano ad amare la potenza delle forze della natura e i ritmi complessi dei loro suoni. E come accade per molti che si trovano nello stesso contesto, ho sempre voluto intensificare il mio senso di connessione con le rocce, i fiumi, gli insetti, le montagne, tutto ciò che sta attorno a me, in un senso di ‘non-separazione’. Le montagne sono ancora fonte di benessere per me, oltre che di spaziosità, proporzione e liberazione. Passo le mie estati nel Northwest Montana dove posso fare escursioni sulle montagne rocciose e nuotare in un grande lago. Per il resto dell’anno sono a New York, sul fiume Hudson, e i due luoghi si equilibrano molto bene. Il lascito dannoso delle pratiche di allevamento delle pecore, che si manifesta in forma di erosione, era del tutto evidente nell’high country della Nova Zelanda; i miei genitori me lo facevano notare spesso. Sembrava radicato in quella vecchia, dannosa fiducia nel dominio dell’uomo sul territorio; pur senza agire consapevolmente, volevo resistere a quella visione delle cose. Esplorando i suoni creati dai fenomeni e dai processi naturali, penso di provare ad essere parte integrante dell’antidoto, con la consapevolezza della non-separazione, come faceva mio padre attraverso il suo amore per le montagne. Tra il 1968 e il 1982 ho iniziato a posizionare pianoforti in rovina in diversi siti, in una serie di installazioni intitolate Piano Transplants. Queste, con l’eccezione di Piano Burning, sono scaturite dal mio amore per l’incongruità e il dislocamento, ma consentivano anche alle persone di guardare al graduale smembramento delle forti e intricate costruzioni umane ad opera del potere morbido di piante (Piano Garden) e acqua (Piano Drowning e le installazioni con i pianoforti arenati nelle spiagge).
Landscape Stories: I fiumi, con le loro qualità simboliche e fisiche, occupano un posto speciale nel suo lavoro. Come ha scritto lei stessa, una scansione sonora di un fiume è molto diversa da una scansione visiva. Nelle sue Sound Maps, l’approccio concettuale, l’intima esperienza sensoriale dell’ascolto, e una specie di narrazione sembrano fondersi senza soluzione di continuità, immergendo l’ascoltatore in un’esperienza profonda che rivela nuove possibilità ogni volta. Da dove deriva il suo interesse per la mappatura dei suoni dei fiumi, e c’è qualche relazione con le loro rappresentazioni visuali (specialmente attraverso la fotografia e il video) e con testi specifici che ha incontrato? Annea Lockwood: I fiumi erano un elemento bellissimo e imprevedibile di quei paesaggi neozelandesi. I fiumi che si intrecciano cambiano corso frequentemente; era sempre interessante vedere quale fosse il nuovo corso principale di un particolare fiume, il Waimakariri per esempio. La corrente dovuta alla pioggia poteva fare scendere grandi ondate d’acqua, sicché attraversare il fiume spesso richiedeva un’imbracatura. L’ambiente era palesemente vivo e affascinante. Chiedi se questo interesse ha qualche relazione con le rappresentazioni visuali dell’acqua. Pensandoci, mi rendo conto che la maggior parte delle immagini appese ai muri di entrambe le nostre case comprende la presenza dell’acqua in qualche modo, e il mio studio ha soltanto poster e fotografie di acqua. La casa nel Montana è sulla riva del lago; la nostra occupazione serale è contemplare la superficie dell’acqua che si muove costantemente. Ma il contatto più profondo avviene attraverso le mie orecchie. Registrare e comporre con il suono dell’ambiente è un modo intimo di esplorare questa vitalità, e questa è una ragione importante per la quale processo pochissimo i suoni, in generale, e in pratica non lo faccio mai con i fiumi. Voglio sentire il flusso dell’energia di un fiume attraverso il suo suono, il più direttamente e compiutamente possibile, e consentire ad altri ascoltatori di provare la stessa immersione, mentre il processing tende a funzionare come un velo che interpreta, credo, e si può intromettere. Gravito nella stessa orbita di quegli artisti visuali che creano studi dettagliati delle superfici d’acqua senza manipolazioni evidenti. Ho trovato le immagini del Tamigi di Roni Horn, alla sua mostra Still Water (the River Thames, for Example), con le sue inquietanti note, avvincenti e ambigue. Spesso oscure per come erano associate, sono rimaste nella mia mente come suggestioni per anni e probabilmente sono affiorate mentre stavo lavorando sul Danubio alcuni anni dopo, quando ho intervistato Gizela Ivkovíc circa la distruzione dei ponti a Novi Sad, in Serbia, durante i bombardamenti della NATO nel 1999. La storia umana di quel fiume ha un lato oscuro, come ci si aspetta da una grande frontiera naturale, e il modo in cui la gente pensa oggi a quel fiume è naturalmente radicato in quella storia. Un’esperienza a Mohács, nel sud dell’Ungheria, mi ha resa ancora più sensibile a questo aspetto, sebbene sia stata molto indiretta. Stavo ascoltando un meraviglioso trio gitano in un bar sulla riva del fiume, e passeggiavo lungo la ringhiera per guardare il fiume alla luce della luna; era nerissimo, scintillante, e a un certo punto il gruppo ha invitato a salire una cantante che ha intonato quella che credo sia la canzone più triste che abbia mai ascoltato, una canzone d’amore serba. Quella combinazione, l’impenetrabile nerezza dell’acqua con la canzone, mi ha resa familiare con questo aspetto doloroso del fiume, con come se fosse stato usato per la violenza dell’uomo, e da qui hanno avuto origine le mie domande a Geza Ivkovíc. E come potrei dimenticare dimenticare Hokusai, il grande pittore giapponese del XIX secolo, per molti anni la più grande influenza sul mio lavoro con i suoni dell’ambiente? Specialmente questo testo dal colophon per Le cento vedute del Fuji: “A settantatrè anni ho compreso un poco la forma delle erbe e degli alberi, la struttura degli uccelli e degli altri animali: perciò a ottantasei anni avrò ancora progredito, a novanta avrò carpito il significato segreto, a cento tutto il divino mistero, e, a centodieci, vivrò come fossi nell’essenzialità e nell’estremo rigore [la traduzione fino a qui proviene dal testo del catalogo a cura di Piero Gobbi, n.d.t.], e ogni punto, ogni linea possederà sicuramente una sua vita propria”. È quest’ultimo passaggio, “ogni punto, ogni linea”, ogni suono che “sicuramente possederà una sua vita propria” che mi ispira a lavorare ancora e più in profondità, più di qualsiasi altra fonte. L’ho trovato ad una mostra dei suoi dipinti a Milano, anni fa.