Landscape Stories: Lei è un fotografo, anche se la scrittura è parte integrante della sua ricerca. Può parlarcene?
Lewis Bush: Normalmente direi di essere sia un fotografo che uno scrittore, i due aspetti lavorativi sono ugualmente importanti per me e occupano più o meno la stessa quantità del mio tempo. Originariamente mi sono allenato come storico e ho lavorato nel settore sanitario e internazionale di sviluppo; prima della mia qualifica professionale come fotografo, così provengo da un background che è molto focalizzato sulla ricerca e la scrittura. La maggior parte dei fotografi, forse scrivono del loro lavoro successivamente alla realizzazione delle proprie serie, per me la scrittura si verifica spesso in tandem con il processo di raccolta delle fotografie, i due aspetti si informano e si danno forma a vicenda in modi importanti. Spesso i miei progetti nascono da problemi che ho discusso nel mio blog (www.disphotic.lewisbush.com), e di conseguenza ho spesso discusso di problemi là che emergono nel corso dei miei progetti fotografici.
Landscape Stories: Vietnam Deprimed esplora le tendenze riguardanti le notizie e le rappresentazioni di intrattenimento del conflitto, principalmente quello di spostare l’attenzione dai violenti effetti fisici della guerra sulle persone che la vivono verso la pornografia tecnologica delle armi, un processo chiamato ‘tecno-feticismo’. La prima metà del libro è costituita da un testo che esplora questi temi e molti altri, tra cui il ruolo iconico della guerra del Vietnam sapientemente plasmata e come sia stato raffigurato da allora. Ce ne può parlare?
Lewis Bush: Il concetto della compassione faticosa è relativamente familiare nei media, un’idea ripetitiva nella quale le visioni di luoghi di sofferenza diminuiscono l’effetto devastante di meraviglia sull’ inerte fruitore/spettatore di tali disgrazie. Mi interessava esplorare altri concetti correlati che suggeriscono modi in cui i media plasmino, a loro piacimento, le fotografie ed il nostro rapporto e la nostra comprensione di ciò che raffigurino. Mi sono concentrato sul fatto che al fine di evitare di alienarsi o di offendere gli spettatori, i mezzi di comunicazione militari e di massa spesso evitavano fotografie editoriali che mostrano atti di violenza, e tendono invece ad utilizzare immagini che si concentrano su cose apparentemente più neutre come la macchina della guerra. La teoria della ‘technofetishism’ come articolata da Roger Stahl suggerisce che questa ultima scelta è altrettanto dannosa, creando l’ idolatria di un culto della tecnologia militare avanzata e una falsa visione della guerra. Altrettanto Stahl suggerisce che promuove l’idea che è in qualche modo legittima le nazioni più forti e tecnologicamente avanzate per depredare e distruggere i più deboli e meno avanzate, applicando una strana forma di tecno-darwinismo. Vietnam Deprimed ha cercato di esplorare queste topics attraverso la scrittura, e ricollegandosi visivamente a queste fotografie di hardware e tecnologia militare, senza filtri mostrando le loro conseguenze estreme.
Landscape Stories: Quanto il Vietnam influenza in modo negativo la nostra immaginazione?
Lewis Bush:Sarebbe banale parlare del retaggio psichico dell’ incubo della guerra del Vietnam, proprio la frase ‘Agent Orange’ evoca già un enorme numero di terribili immagini mentali. Tuttavia penso che per alcuni aspetti la guerra del Vietnam abbia influenzato anche la nostra immaginazione in modo positivo, piuttosto che in modo negativo. Mostrando la scala e la brutalità del conflitto moderno in un modo non filtrato senza precedenti il conflitto, forse ha aiutato a rompere con alcuni dei vecchi luoghi comuni sulla guerra come una nobile impresa, intrapresa per motivi moralmente giustificabili. Invece, forse, ha contribuito a seminare un senso pubblico di disagio con la guerra che rimane fino ad oggi. A mio avviso questa paura culturale, politica e militare di andare in guerra di nuovo, e la paura che ogni nuova guerra potrebbe trasformarsi in un altro Vietnam è uno dei pochi aspetti positivi attribuibili al conflitto.
Landscape Stories: Mi può parlare della seconda metà del libro Vietnam Deprimed?
Lewis Bush: La prima metà del libro è un saggio che esplora l’etica e le implicazioni nel guardare atti di sofferenza e di orrore, ed é un tentativo di bilanciare questi dilemmi con l’alternativa, altrettanto preoccupante, di non vederli. La seconda parte del libro cerca di affrontare questi problemi in modo più diretto, inserendo fotografie di armi dell’epoca del Vietnam opposte a fotografie di infortuni. L’idea alla base è stata quella di tentare di ricollegare le due cose in modo molto diretto. Queste fotografie, dovrei aggiungere non sono state scattate da me, ma sono stati acquistate da archivi in vari sensi, da archivi fisici tradizionali e la metà scelte da Internet. Il progetto è ispirato da una serie di altre opere, ma forse trainante è stato il libro Krieg dem Kriege di Ernst Friedrich del 1924, che ho esaminato poco prima di iniziare il progetto. Lavorare piuttosto nella tradizione di artisti come Goya, Friedrich ha compilato decine di fotografie scioccanti di soldati orribilmente feriti, villaggi distrutti, cadaveri, con l’intento suppongo di dimostrare definitivamente come la terribile faccia della guerra e diventando un pacifista. Come sappiamo ora era riuscito nel suo intento, e col passare del tempo mi guardo indietro a riguardo del mio progetto e so non sia stato un successo, ma è stato indubbiamente un esperimento interessante al momento.
Landscape Stories:Può introdurci Teleologies of War?
Lewis Bush:Teleologies of War è un progetto in corso che è nato da Vietnam Deprimed. Il mio lavoro sul Vietnam guardò specificamente ad uno dei conflitti, ed esplora una tendenza specifica dei media, l’idea di questo nuovo progetto è quella di esplorare una serie di tendenze nel modo nel quale i conflitti vengono mostrati in televisione (in senso lato del termine, da canali televisivi tradizionali a Youtube). Alla fine l’obiettivo è quello di esplorare e fare domande senza tralasciare l’effetto che hanno su di noi.
Landscape Stories: *Molti dei suoi progetti sono concepiti come libri. Ci può spiegare la sua scelta?
Lewis Bush:Penso questo rifletta in parte il mio background di scrittore, questo formato si adatta solo ai testi estesi. Ho utilizzano questi ultimi spesso meglio di molti altri. Mi piacciono i libri, mi piace gestire e lavorare con loro ed adoro la possibilità narrativa che offrono. Detto questo la maggior parte dei miei progetti esistono anche in altri formati, come: mostre, opere multimediali, mail art, siti web, e così via. Userò qualunque formato finale sembri opportuno al lavoro e trasmetta un’idea più efficace.
Landscape Stories: Cosa vuol dire emergenze oggi?
Lewis Bush:E’ molto difficile parlare di conflitti in corso analizzando in prima battuta le fotografie e i media, da un lato, c’è così tanto materiale, queste ultime emergenze, però, evidenziano di essere troppo grezze, e premature, da ridurre l’ analisi per dei reali casi di studio. Evidenziata la prima lacuna, trovo interessante i conflitti siano sempre più evidenti diventando vere e proprie battaglie mediali, prima di essere battaglie fisiche. Penso sia molto evidente riferendo che gran parte della discussioni intorno al conflitto Siriano e la questione se gli altri paesi dovrebbero intervenire: le immagini, il video, i media. I politici parlano di essere mossi all’azione da parte del referto di attacchi di armi chimiche, come se la conoscenza di queste sole cose non sarebbe sufficienti a motivare l’azione. Altrettanto interessante è la trasformazione delle piattaforme multimediali, le quali stanno diventando bersagli della guerra in modi nuovi. Nelle guerre del passato, tra gli obiettivi militari sarebbe stato attaccare e distruggere le infrastrutture di supporto fisico: come le stazioni radio o le antenne di telecomunicazione. Ora se si guarda a un gruppo come il filo-siriano Assad; l’esercito elettronico sta attaccando piattaforme di social media come: Twitter, i siti di informazione ed il New York Times.
Intervista a cura di Camilla Boemio
Traduzione a cura di Camilla Boemio