Landscape Stories: In che misura il suo desiderio di conoscenza e la sua curiosità intellettuale hanno alimentato e sostenuto la sua ricerca personale? Quali sono stati gli artisti visivi che hanno influenzato maggiormente i suoi esordi?
Vincenzo Castella: La ricerca si è de?nita quando ho visto convivere il desiderio di conoscenza diciamo allo "stato gassoso" con lo scandire delle azioni piatte di tutti i giorni. In fondo che cos'è la ricerca personale se non il sostegno dei gesti concreti quotidiani e ripetuti? Possiamo parlare di un passaggio allo "stato solido". Sono stato fortunato all'inizio quando sono stato molto aiutato dai lavori dei pittori: Carel Fabritius, Jan Vermeer e Giovanni Bellini. Per il cinema documentario Robert Flaherty è stato il mio favorito. Per la fotogra?a Charles Sheeler, Paul Strand e Walker Evans, per i secessionisti, Alvin Langdon Coburn e Karl Struss. Subito dopo, Bernd e Hilla Becker, Ed Ruscha e Art Sinsabaugh.
Landscape Stories: Nel 1974 lei ha partecipato come chitarrista al terzo album di Alan Sorrenti. Shawn Phillips, gli Osanna, Toni Esposito… La Napoli dei '70 era davvero effervescente e vivace, una porta verso l'Oriente e il Mediterraneo. Luciano Cilio, in "Dell'Universo Assente" raggiunse vette di rara bellezza, intensità, spiritualità. Un grandissimo musicista napoletano scomparso nel 1983, misconosciuto e dimenticato in patria, ma apprezzatissimo negli ambienti avant internazionali. Conosce la sua musica?
Vincenzo Castella: Ho seguito un po' il lavoro Luciano Cilio, è stato grande. Aveva anche inciso tracce musicali nel precedente album di Alan Sorrenti. Io ho inciso nel terzo album ('74/'75) con tappeti sonori eseguiti con vari tipi di chitarre, chitarra elettrica spenta, ampli?cata e chitarra acustica e mandolino elettrico. Ho sperimentato vari modi di incidere sotto la guida di Paul Buckmaster. Ricordo i suoi continui inviti a suonare poco, ricordavano i consigli di Miles Davis a John Mclaughlin in "In A Silent Way" '69: "Suona la chitarra come se non sapessi suonarla"… L'avanguardia di allora, di cui Cilio faceva parte, era veramente straordinaria, un grande "asset" per la cultura occidentale. A pensarci bene adesso si può vedere un limite nell'impianto metodologico degli strumenti concettuali e in una concezione vecchia della creatività di base. Ma è servito per prepararsi ad affrontare la questione del classico e ad allontanarsi ancora di più dal vecchio impianto creativo della cultura accademica…. almeno per me.
Landscape Stories: La musica la appassiona ancora? Quali sono i suoi ascolti preferiti attualmente?
Vincenzo Castella: Sì, moltissimo. È un po' cambiato il mio rapporto con gli "ascolti". Questi sono diventati più solitari, sporadici e frammentari però molto meno legati all'enfasi, alla retorica ipnotica delle liturgie collettive. Mi piace ribadire che da sempre la musica e i musicisti sono sempre in anticipo. Ascolto il blues, la musica africana, iraniana, come pure la musica antica dei trovatori e il rock di adesso, nelle sue varie forme, per esempio lo Stoner Rock mi attrae molto anche se come direbbero gli americani: "it is not my cup of tea".
Landscape Stories: In che modo le sue ossessioni e le sue visioni hanno alimentato la sua ricerca artistica?
Vincenzo Castella:Non so se si può parlare di modo, a un certo punto si è rinforzata la fusione tra l'ossessione e la visione, naturalmente vissute in modalità H 24.
Landscape Stories: "La mia forma d'arte è il viaggio fatto a piedi nel paesaggio… La sola cosa che dobbiamo prendere da un paesaggio sono delle fotografie. La sola cosa che ci dobbiamo lasciare sono le tracce dei passi".
Hamish Fulton
Queste parole mi hanno ricordato la sua lettura sulle tracce, sugli scarti della memoria, sull'accumulo e la sedimentazione di strati di città contemporanea in quella storica. Mi sembra che questo abbia molto a che fare con le sue vedute urbane, con l'inventario e la rappresentazione della città e del suo paesaggio culturale.
Vincenzo Castella: Vero, e per quello che attiene al paesaggio siamo entrati in un quadro leggermente modi?cato… direi che forse non dobbiamo neanche più "prendere", ma piuttosto imparare ad esserci. Lavorare sulla visione e condividere documenti, archivi ed esperienze, per un artista è la cosa più importante.
Landscape Stories: L'importanza delle regole: in che modo il "metodo" condiziona la sua ricerca fotografica?
Vincenzo Castella: Molto, moltissimo. Tutto il mio lavoro recente è basato sulla misurazione della distanza tra sistema e metodo. Il metodo a differenza del sistema incorpora come manifesto sociale e politico l'avversione per la funzionalità e la convenienza. Aderire al sistema (oltre a frequenti e tragicomiche confusioni lessicali e terminologiche) prevede una specie di fede nel successo, l'ossessione della produzione, l'angoscia del presenzialismo, l'uso dell'outsourcing e l'amore scon?nato per il cosiddetto "mainstream".
Landscape Stories: ""L'architettura è porosa quanto questa pietra. Costruzione ed azione si compenetrano in cortili, arcate e scale. Ovunque viene mantenuto dello spazio idoneo a diventare teatro di nuove impreviste circostanze. Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo "così e non diversamente". E' così che qui si sviluppa l'architettura come sintesi della ritmica comunitaria: civilizzata, privata, ordinata solo nei grandi alberghi e nei magazzini delle banchine – anarchica, intrecciata, rustica nel centro in cui appena quarant'anni fa si è iniziato a scavare grandi strade". Walter Benjamin – Immagini di Città, prima pubblicazione: Neapel, Frankfurter Zeitung, 1925
La fotografia, come (la) scrittura, ha la capacità di creare punti di vista, metafore, tracce, possibili percorsi, digressioni sul reale. Ce ne vuole parlare?
Vincenzo Castella: Il modo in cui uso il linguaggio della fotogra?a si lega alla scelta dello "Showing" e della dislocazione non necessariamente causale degli episodi, quasi in modalità più strutturalista, il tracciato testuale senza la presenza paternalistica del narratore. L'aggettivo ‘fotogra?co' si lega propriamente e impropriamente a molteplici sostantivi: testimonianza, prova, documento, ri?essione, senso… istinto, ma si tratta di un'azione di trasferimento a partire dalle apparenze, di un oggetto scelto, mediante proiezione ottica su una super?cie sensibile alla luce! Descrivibile come un vero atto migratorio di oggetti solidi spostati e ridimensionati da un territorio ad un altro. Questa trasformazione dei documenti va in una direzione non facilmente tracciabile. I resoconti etnogra?ci e la simultaneità delle interpretazioni creano un vortice iconogra?co a cui non è possibile sottrarsi. Non so esattamente dove sta andando la ricerca antropologica di adesso, certo non nella direzione in cui si muove la sociologia alla moda e trasformista che si applica quasi fosse un aggettivo a tutto quello che si vede muovere intorno… Lo studio appassionato delle culture porta inevitabilmente al coinvolgimento personale (al quale tradizionalmente si resiste, non si può appartenere solo all'osservazione), ma esso conduce in?ne a ragionare sui fenomeni che tentano di spiegare qualcosa della vita, cioè l'Arte.
Landscape Stories: Il colore è parte del suo linguaggio espressivo. Perché ha fatto questa scelta? In che modo è mutata la percezione collettiva del colore e il suo significato culturale?
Vincenzo Castella: Non è stata una vera e propria scelta, non ha niente a che fare con questioni estetiche o creative. Se ritorno al tempo in cui ero un adolescente, mi accorgo che il modo di sognare o più semplicemente il dispositivo per ricostruire i sogni diventava sempre più a colori. Ho vissuto e misurato questo passaggio, ?nalmente "l'editing del sogno" dal bianco e nero originale della prima televisione e dei fumetti giovanili, dapprima con l'inserimento di sporadiche tavole a colori, si trasformava e passava de?nitivamente ad una specie di Full Color… catodico. Quindi l'uso dei supporti a colori è diventato velocemente e irrinunciabilmente un soggetto a disposizione, parte dei miei contenuti.
Landscape Stories: Nella sua opinione la fotografia può essere un atto rivoluzionario? Quanto questa può essere capace di rinnovare il suo linguaggio per scardinare un radicato pensiero reazionario?
Vincenzo Castella: Certo che sì! E' nella natura del linguaggio della fotogra?a creare uno scarto rispetto alle aspettative, quindi ride?nire i valori al di là delle convenienze e delle buone maniere. Evidentemente quello che conta non sono tanto i risultati ottenuti e il suo numero di varianti stilistiche, ma la centralità dell'oggetto visivo, che spesso è de?nita dal percorso per arrivarci.
Landscape Stories: L'Italia è un paese con profonde radici culturali, ma nonostante questo, a differenza di altri paesi, la fotografia sembra occupare ancora un ruolo marginale. Per quale motivo nella sua opinione?
Vincenzo Castella: La dif?coltà di guardare al contemporaneo è tradizionalmente una triste esperienza del nostro impianto accademico che si ri?ette ovviamente sulla didattica. La fotogra?a sembra occupare un ruolo ancora fortemente amatoriale e stilisticamente evoluzionista. Sotto un altro aspetto è elitaria, troppo creativa e derivativa e raramente produce dei risultati testuali. In sintesi, quando guardiamo dei lavori visivi dif?cilmente vediamo oltre attraverso quell'esperienza. Ci limitiamo a contemplare in modo statico, l'esperienza dell'altrove, dell' "attraverso", del "conspectus" non ci s?ora minimamente… e l'immagine non si forma, non diventa testo non insegna e non si impara "da e tramite essa". Ma non è colpa soltanto nostra se siamo fondamentalmente degli analfabeti visivi, e però a pensarci bene questo non avviene solo in Italia.
Landscape Stories: In Italia ci sono stati progetti collettivi come "Viaggio in Italia" (1984), "Archivio dello spazio" (1987-1997) o Linea di Confine (1990-), capaci di creare importanti opportunità di confronto per lo sviluppo di una visione identitaria del territorio e del paesaggio. Nella sua opinione come sono mutate quelle esperienze? Che idea ha della fotografia italiana oggi?
Vincenzo Castella: L'atteggiamento degli anni '80 di riscoprire quello che era alla portata dei nostri occhi cioè quel tipo di documentarismo asciutto e gra?camente de?nito è rapidamente diventato una specie di stile internazionale un po' svuotato rispetto all'approccio iniziale appassionato, provocatorio, interrogativo e quasi rivoluzionario di ride?nizione attraverso dispositivi semiindustriali. Rapidamente è diventato una sorta di mainstream, autoreferenziale e noiosissimo…
Landscape Stories: A cosa sta lavorando adesso? Quali progetti ha in mente per il 2014?
Vincenzo Castella: Faccio e farò ancora fotogra?e dell'urbanizzazione o comunque "della vicinanza" e delle possibili relazioni identitarie tra le cose. Per quanto riguarda i lavori sui territori "sul campo" sto sperimentando una specie di Metodo Forense che prevede la riproposizione dei documenti ricostruendo a partire dalla ?ne, dalle ossa. Dal 2007 ho realizzato installazioni con video in animazione, muovendomi nelle immagini ?sse con itinerari incrociati spesso multipli, quasi come una macchina da presa virtuale. Il progetto è stato accolto e presentato ad "Art Unlimited, Art Basel 2008". Adesso sto lavorando con le riprese ?sse cinematogra?che in 4K. Che succede se guardiamo come fossero immagini i 24/25 frames contenuti in un secondo di tempo di ripresa? Chissà che io non capisca qualcosa di più sul senso reale del "tempo dell'immagine"… ma vedremo.
Intervista a cura di Gianpaolo Arena