Interviste

Guy Martin • Fotografo, U.K.

City Of Dreams

Landscape Stories: Come si è avvicinato alle arti visive? Che cosa è stato che la ha spinta verso la fotografia in particolare?
Guy Martin: Fin dalla più giovane età ho avvertito che le immagini, anche quelle provenienti dal fotogiornalismo quindi guerre e conflitti sociali, avevano un’enorme risonanza emotiva in me, più di quanto fosse normale per un adolescente cresciuto in una piccola città costiera del Regno Unito. Le immagini dell’epoca del Vietnam, Don McAllen, Larry Burrows e Philip Jones Griffiths, mi hanno spinto ad essere curioso, mi hanno impegnato su questioni globali e hanno abituato la mia mente a spaziare ben oltre l’ambiente rurale e sicuro nel quale vivevo, verso persone, luoghi e problemi che si trovavano ben oltre. Il lavoro di fotografi socialmente impegnati mi ha spinto ad essere creativo, ad aprirmi al mondo e mi ha instillato un desiderio di scoperta che non avrei mai avuto se mi fossi dedicato alle scienze.

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© Guy Martin from ‘Trading over the Borderline – Iraq_ Turkey 2004’
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© Guy Martin from ‘Trading over the Borderline – Iraq_ Turkey 2004’
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© Guy Martin from ‘Trading over the Borderline – Iraq_ Turkey 2004’

Landscape Stories: Quali sono i suoi artisti preferiti? Perché?
Guy Martin: Gli artisti che mi ispirano maggiormente in questo momento sono quelli che stanno sfidando nozioni preconcette di narrazione visiva. Tim Hetherignton e il suo approccio alla narrazione saranno sempre una grande ispirazione. Essere in grado di mixare video, audio, immagini fisse e testo per informare e dare un’esperienza coinvolgente, produce un senso di meraviglia. Chris Killip, nonostante abbia avuto meno riconoscimenti di quanto meritasse, era molto più avanti del suo tempo. Il suo contributo alla pratica documentaria in Inghilterra è ancor oggi attuale come quando è stato realizzato. C’è stata una mostra a Newcastle, nel nord ovest dell’Inghilterra, alla Side Gallery. I proprietari della galleria hanno un grande archivio del lavoro di diversi fotografi. Mi hanno mostrato stampe della serie realizzata da Killip intitolata Sea Coal che loro in parte avevano finanziato. Ne rimasi impressionato. Un lavoro pieno di contraddizioni: semplice eppur complesso; ravvicinato e al contempo con una grande vastità di paesaggio, locale e anche universale. Ma a dire il vero la prima volta che ho iniziato a capire come funzioni la pratica documentaria e come possa coesistere col giornalismo è stato quando studiavo fotografia a Newport grazie agli insegnanti che ho avuto. Ken Grant quando con il suo approccio corri-lentamente documenta la sua città natale di Liverpool; i paesaggi mozzafiato che Clive Landen ha realizzato mentre si occupava dell’afta epizootica e della storia dell’allevamento del bestiame agli inizi del 2000; il lavoro di Paul Seawright in Irlanda del Nord e Afghanistan; i primi lavori di Simon Norfolk sulla memoria, la fotografia e il genocidio e l’opera di Alfredo Jarr sul Ruanda. Tutti questi fotografi, in un modo o nell’altro, hanno avuto a che fare con storie basate su fatti d’attualità o di cronaca; mi affascina il modo in cui hanno affrontato il lavoro e usato la fotografia. È una cosa che forse non ho compreso appieno fintanto che non ho iniziato il mio percorso giornalistico. Ma guardando indietro a quegli anni di formazione quando studiavo, appare chiaro come alcuni di questi fotografi hanno direttamente influenzato il mio modo di lavorare.

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© Guy Martin from ‘Cossacks Reborn’
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© Guy Martin from ‘Cossacks Reborn’

Landscape Stories: Ritiene che la fotografia sia utile per comprendere la realtà e sciogliere le sue oscurità?
Guy Martin: Beh, in termini di pura informazione e raccolta di notizie non riesco a pensare ad un altro mezzo che offra una versione di “realtà” ad un pubblico. Basta guardare a quanto potenti sono diventate le immagini di Abu Ghraib. Guardate i filmati sgranati realizzati con i cellulari a Londra durante le esplosioni del 7/7. Direi che quelle immagini sono state fondamentali nella trasmissione di informazioni riguardo quegli eventi. Le immagini per ora sono soltanto oggetti in due dimensioni; non possono ricreare o riprodurre eventi per diventare raffigurazioni oggettive. Per questo motivo è importante che chi usufruisce di informazioni presti attenzioni a chi è che le produce e da dove gli vengono. Chi scatta una foto ha altrettanta importanza di ciò che la foto ritrae. In un’epoca in cui siamo circondati da immagini, dobbiamo anche spostare avanti la nostra comprensione e la conoscenza visiva. Non possiamo aggrapparci alle nozioni del 20° secolo relativamente alla verità di una foto.

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© Guy Martin from ‘The Last Days of Mubarak’
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© Guy Martin from ‘The Last Days of Mubarak’
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© Guy Martin from ‘The Last Days of Mubarak’

Landscape Stories: Ogni posto o paesaggio contiene storie e molteplici significati. Cosa comporta per lei fotografare in Turchia, in Irak o nel Caucaso? Quali sono i suoi posti preferiti per fare fotografie? Come pensa che, in qualche modo, queste diverse culture abbiano influenzato il suo lavoro?
Guy Martin:Da quando mi sono laureato all’Università nel 2006, il Medio Oriente e il Caucaso sono stati l’epicentro degli eventi mondiali. Affacciandosi sul mondo in quel periodo era normale restare affascinati da quelle aree ed ha a che fare più con le persone con le quali ho interagito lavorando che con la cultura. Entro sempre in un rapporto molto stretto con le persone della mia età. Mi ha sempre colpito durante i primi giorni delle rivoluzioni arabe che le persone che guidavano, che protestavano e organizzavano gli eventi erano persone della mia età, nel pieno dei vent’anni. Mi impressionò: sono queste piccole cose che mi aiutano a entrare in storie, terre, lingue e culture così lontane dalla mia.

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© Guy Martin from ‘Cossacks Reborn’
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© Guy Martin from ‘Cossacks Reborn’

Landscape Stories: Ci sono delle idee che desidera realizzare? Come sviluppa i suoi progetti? Quale approccio segue, quali scopi si prefigge?
Guy Martin: Sostanzialmente cerco di mettere a fuoco storie su cui non hanno lavorato altri. Mi metto alla ricerca, finisco sempre per essere attratto da storie che riguardano eventi mondiali, che siano globali. Ho provato per diversi anni a concentrarmi solo su piccole storie nel Regno Unito, ma non ci riuscivo. Forse non ero pronto ma, pur affrontando una grande notizia, c’è da trovare la propria maniera. Devi trovare un modo per entrare in una situazione e non rendere il lavoro come quello di chiunque altro. Rendere il lavoro personale in grandi eventi di cronaca è più difficile di quanto si possa pensare. Spesso i fotografi viaggiano in gruppi, per una buona ragione: è più sicuro e riduce il costo. Ma come allora si fa a trovare la propria voce? Non dipende solo da ciò che hai di fronte ma anche dalle persone con cui sei. Così ho sempre cercare di lavorare alla periferie degli eventi. Lo svolgimento di una storia va sempre oltre i vari editing affrontati con amici e mentori. Non so mai come finirle, ad essere onesti, come fermarmi. Ma c’è un progetto che mi ha tenuto impegnato per due anni, realizzato in Bulgaria, e che sta per uscire, del quale sono molto fiero. Tutto è iniziato un fine settimana con uno scatto, una folgorazione poi germogliata in una storia d’amore con la gente e i paesaggi del sud della Bulgaria. Io lavoro così: vado avanti e avanti fino a quando qualcuno mi dice di smettere.

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© Guy Martin from ‘Fragments of a Six-Day War’
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© Guy Martin from ‘Fragments of a Six-Day War’
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© Guy Martin from ‘Fragments of a Six-Day War’

Landscape Stories: Ad ottobre il suo progetto City of Dreams sarà in mostra all’Umbria World Fest. Secondo lei perché le persone sono dipendenti da questo tipo di programmi televisivi?
Guy Martin: Come molti altri fotografi e giornalisti mi sono trasferito a Istanbul perché la sua posizione geografica ci ha messo nel cuore di una regione dinamica, a più livelli e intensamente visiva, con conflitti come la guerra civile siriana a solo un volo di un’ora di distanza. Tuttavia, dopo le mie esperienze durante le rivoluzioni in Egitto e Libia nel 2011, io non sentivo il bisogno né il desiderio di fotografare questa orribile, orribile guerra. Per me, osservando quel che avviene in Oriente e nell’Africa centrale e settentrionale negli ultimi tre anni, è diventato sempre più chiaro che queste rivolte popolari si stanno trasformando in guerre per procura, orchestrate dai paesi che lottano tra di loro per il potere, per la ricerca di nuove alleanze, per la re-instaurazione di vecchi regimi e si fortificano contro le grandi potenze occidentali e le Nazioni Unite. Mi affascina, ora più che mai, pensare a questioni riguardanti il potere e di come come un fotografo possa rappresentarle. Il risultato di un cattivo uso o abuso di potere è spesso la violenza di strada, la guerra e la morte. Ma qual è la sua origine? E se potessi fotografare qualcosa che fa vedere come il potere si conquista, si mantiene o si perde? Con questo in mente, ho deciso di adottare un approccio piuttosto inusuale e documentare il mondo di soap opera turche. Anche se la mia prima reazione alle proteste di piazza Taksim (il parco Gezi) fu di non fotografare perché non mi sembravano rilevanti per il mio progetto, la curiosità ha avuto la meglio. La sensazione prevalente che mi ha colpito è stata la loro teatralità pura: il romanticismo, la bandiera che sventola, i cieli carichi di fumo, le moschee sul Bosforo, i turisti terrorizzati coinvolti in tutto questo: ogni cosa mi sembrava che avesse un ruolo. Le reazioni delle persone hanno cambiato il modo in cui stavo cercando di fotografarle: raccoglievano più pietre da lanciare, sventolavano più animatamente le bandiere, recitavano per la fotocamera. Prima d’allora avevo visto quello stesso linguaggio del corpo nei primi giorni delle rivoluzioni arabe. Così avevo cercato di evitarli per cercare momenti più reali. Stavolta ho seguito quel fenomeno e ho catturato i manifestanti come dei divi, nelle loro pose sorprendenti ed esagerate. Alla fine, ho deciso di iniziare a giustapporre le immagini delle proteste con gli eventi teatrali delle soap opera. Era divenuto chiaro per me che erano tutti parte della stessa storia. Combinando i due progetti, spero che gli spettatori mettano realmente in discussione ciò che stanno guardando. Alla sua base c’è uno sguardo sulla lotta per il potere in Turchia. La violenza e la lotta del parco Gezi certamente sono una parte di quella; ma lo sono anche il viavai delle scene delle soap opera, che si rivelano con sorprendente somiglianza visiva.

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© Guy Martin from ‘City of Dreams’
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© Guy Martin from ‘City of Dreams’
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© Guy Martin from ‘City of Dreams’

Landscape Stories: Ci racconti la sua più strana “landscape story”?
Guy Martin: Arrampicarmi e saltare dal balcone del dodicesimo piano di un hotel dopo essermi chiuso dentro e aver bloccato la porta dall’interno del bagno. Ero a Bengasi al culmine della rivoluzione libica nel 2011 con mitragliatrici tutt’intorno. Non avessi avuto il coraggio di uscire dalla finestra, oggi sarei ancora là. Ero nudo e non oso immaginare quello che i vicini possono aver pensato vendendo un inglese saltare da un balcone a un altro.

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© Guy Martin from ‘City of Dreams’
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© Guy Martin from ‘City of Dreams’
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© Guy Martin from ‘City of Dreams’

Landscape Stories: Ci suggerisce tre libri fotografici che apprezza?
Guy Martin: Richard Mosse ‘INFRA’, Larry Sultan ‘The Valley’ e Ken Grant ‘No Pain whatsoever’.
Landscape Stories: A cosa sta lavorando?
Guy Martin: Il mio progetto attuale è in realtà solo uno sviluppo di City of Dreams, ma più cupo. Si tratta di uno sguardo portato a più livelli sulle icone, le bugie e le verità di un anno nel quale forze oscure e potenti hanno eroso i fondamenti della moderna Turchia. Lobbies dei tassi di interesse, spie, mezzi di comunicazione, una guerra civile non così segreta con i curdi, rapporti politici poco chiari con lo stato islamico. Un mix esplosivo di idee, ideologie e identità che la Turchia lotta disperatamente per contenere.

guy-martin.co.uk

Intervista a cura di Gianpaolo Arena
Traduzione a cura di Sergio Tranquilli