Interviste

Mark Steinmetz • Fotografo, U.S.A

The Earth’s Beating Heart

Landscape Stories: Come si è avvicinato all’arte? Come è stato attratto in particolare dalla fotografia?
Mark Steinmetz: I miei genitori mi diedero una macchina fotografica quando avevo all’incirca sei anni. Ricordo che una volta, nel rincasare da una gita fuori porta, uscii dalla macchina e mi appiattii sul baule così da potere inquadrare la casa giusto giusto in un’immagine. Ricordo la sensazione di premere il ventre contro il baule e dei lievi aggiustamenti che apportavo. Selezionare dove cadranno le linee dell’inquadratura così da tagliare fuori un pezzo di mondo mi ha sempre dato soddisfazione.
Al liceo mi interessavo di letteratura e più tardi, al college, di cinema, ma per buona parte della mia gioventù mi vedevo tagliato più per le scienze fisiche, come astronomia, paleontologia, o archeologia. Capitò al college di seguire un corso sulla filmografia di Michelangelo Antonioni e uno in storia dell’arte moderna, e mi lasciai alle spalle le scienze e la matematica. Capii che altre persone potevano portare avanti la ricerca in campo scientifico e tenermi aggiornato sulle scoperte. Io sarei andato là fuori nel mondo e avrei usato una macchina fotografica per descrivere e interpretare la società attuale e per lasciarne una traccia.

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© Mark Steinmetz from ‘The Players (1986-1990)’
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© Mark Steinmetz from ‘The Players (1986-1990)’
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© Mark Steinmetz from ‘The Players (1986-1990)’
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© Mark Steinmetz from ‘The Players (1986-1990)’

Landscape Stories: Chi sono i Suoi artisti preferiti e perché?
Mark Steinmetz: Ce ne sono così tanti, troppi. Nel cinema, devo citare Buster Keaton e Charlie Chaplin – adoro il modo in cui usano il proprio corpo per trarne effetti comici. Ci sono certe note emotive che solo il mezzo del film muto sa fare vibrare. Amo anche i film di Jean Renoir, ma la lista di registi che considero più eminenti diventerebbe molto lunga. Il modo in cui Orson Welles fotografa il suo corpo vecchio e borioso nei suoi ultimi film è da annoverare tra i migliori autoritratti del XX secolo. Nella fotografia, restringerei semplicemente a Walker Evans e Atget, ma lasciate che vi includa anche Winogrand.
Ammiro i pittori veneziani, come Bellini e Giorgione, per la loro maestria ritrattistica e l’abilità nel creare scene narrative (si veda La Tempesta di Giorgione). Amo Fra Angelico – visceralmente, non so spiegare il perché. E ho un profondo amore per la musica – è come un nutrimento per me – non mi sarebbe possibile incominciare a stilare una lista dei musicisti preferiti.

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© Mark Steinmetz from ‘Summer Camp (1986-2003)’
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© Mark Steinmetz from ‘Summer Camp (1986-2003)’
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© Mark Steinmetz from ‘Summer Camp (1986-2003)’

Landscape Stories: Lei lavorò per alcuni anni a stretto contatto con Garry Winogrand. Quanto ha inciso l’influenza personale e artistica di Winogrand sulla Sua carriera artistica?
Mark Steinmetz: Non fu per diversi anni. Furono nove mesi, a Los Angeles quando avevo 22 anni e, come si dimostrò poi, nel suo ultimo anno di vita. Assorbivo più o meno tutto quello che aveva da dire e da offrire. I suoi lavori, in particolare i più recenti, così misteriosi ed elegiaci, mi toccano nel profondo e restano tuttora una guida per me. Aveva un’intelligenza affilata e una mente agile; era un cercatore di verità.

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© Mark Steinmetz from ‘Summer Camp (1986-2003)’
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© Mark Steinmetz from ‘Summer Camp (1986-2003)’

Landscape Stories: Garry Winogrand portava i figli allo zoo, in un periodo gravato da un difficile divorzio. Scattò delle immagini, si accorse di avere per le mani qualcosa, e infine produsse “The Animals”. Come si pone nel momento in cui avverte una sensazione di disagio nel realizzare delle fotografie?
Mark Steinmetz: Penso che in questo caso Winogrand si sentisse piuttosto bene mentre fotografava allo zoo. In fin dei conti molte persone vanno allo zoo con fotocamere, fotografando se stessi e gli animali. Stava probabilmente attraversando un periodo difficile della sua vita ma ho la sensazione che fossero momenti anzi piacevoli quelli passati fuori nei fine settimana, a volte assieme ai figli in città. Verosimilmente si sentiva più a disagio nel fotografare le persone in situazioni meno affollate, dove era palese che li stesse ritraendo senza il loro permesso, ma devo dire che in generale Garry si dimostrava piuttosto indifferente a riguardo – non pareva preoccuparsi di come le persone avrebbero reagito nei suoi confronti mentre li stava fotografando. Penso che molti abbiano la tendenza ad evitare ciò che realmente li interessa solo perché troppo imbarazzati per tentare di raffigurarlo.

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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’
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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’
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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’

Landscape Stories: Peter Galassi sostiene che i Suoi paesaggi siano “luoghi con una personalità”...
Mark Steinmetz: Hmm, era nel suo scritto per “South East”. Molte mie immagini di luoghi contengono un qualche incidente, come un animale che attraversa, un palloncino in volo, o lo squarcio di un lampo. Un’automobile abbandonata può suggerire circostanze particolari. Per lo più, tendo a indentificarmi emotivamente se si vuole con la scena, che evoca, per lo meno in me, uno stato d’animo. I miei paesaggi non hanno una vocazione olimpica, maestosa, epica; operano a un livello più intimo. Peter si riferiva probabilmente al mio libro “Tuscan Trees” dove gli ulivi hanno i tratti selvatici di vecchi saggi.

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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’
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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’

Landscape Stories: Sappiamo che ha interesse per Lucas Foglia e Paul D’Amato. Perché pensa che la loro opera possa ispirare la nostra era? E ancora, in che modo ritiene interessante il loro uso del colore?
Mark Steinmetz: Mi oriento soprattutto verso la generazione precedente di fotografi, e fotografi ora scomparsi e consegnati alla storia. Conosco molte bene i lavori di Paul. Eravamo amici e fotografavamo nello stesso periodo alla fine degli anni ’80 a Chicago, quando incominciò a produrre una quantità di lavori eccitanti e impegnativi. E’ un bene che questi possano essere visti ora più diffusamente e possano ispirare una nuova generazione. Sarei molto lieto di sapere che il mio lascito è stato protratto ed esplorato e scavalcato con audacia da giovani fotografi.

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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’
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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’
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© Mark Steinmetz from ‘Kids & Teens (1984-1992)’

Landscape Stories: Delinea delle tendenze nella fotografia odierna? Chi sono i fotografi attuali che più La stimolano? Quali gli artisti emergenti da tenere d’occhio?
Mark Steinmetz: Penso che molti fotografi oggi non si interessino granché del mondo, o a come porsi rispetto al mondo. Tanti incespicano goffamente in una vena concettuale e in tutta sincerità temo che molti siano un po’ sperduti. Pure coloro che sono visibilmente interessati al mondo presentano il proprio lavoro in libri che seguono formule piuttosto astratte. Una tendenza evidente oggi, per lo meno nelle gallerie d’arte, vede una certa astrazione orientata più al processo, talvolta derivata dalle procedure in camera oscura. Penso che vi sia una interessante rilassatezza e giocosità in molti che stanno lavorando con nature morte strutturate. Mi asterrei dal fare nomi – pare vi siano molti giovani fotografi, animati a capaci, ma ve ne sono che corrano a un livello così alto di rischio, passione e curiosità quanto un Winogrand? Mi piacerebbe vedere un po’ più di follia nell’odierna fotografia straight.

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© Mark Steinmetz from ‘Paris in My Time (1985-2011)’
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© Mark Steinmetz from ‘Paris in My Time (1985-2011)’

Landscape Stories: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.”
Questa è una citazione da Michelangelo Antonioni. Sono importanti queste indicazioni per la Sua interpretazione fotografica, e in quale misura? Quanto pesa il legame con l’assenza, con ciò che non c’è o che sta altrove?

Mark Steinmetz: Quando avevo 17 anni ero in una classe devota ai film di Antonioni e imparai molto sulla struttura cinematografica riguardando quei film lentamente, inquadratura per inquadratura. Imparai molto sulle immagini e su come si compongono in una struttura. Scrisse qualcosa che trovai avvincente circa l’estrazione di un’immagine da un evento, e come quell’immagine possa non rappresentare fedelmente l’evento stesso ma essere una creazione distinta che segue logiche diverse. Sono convinto che non esista qualcosa come la realtà assoluta; la percezione è sempre soggettiva. Vi è sempre una consapevolezza più ampia dalla quale percepire una versione elevata della realtà. Nell’arte e nel racconto credo si possa trarre potenzialmente molto dalle informazioni eluse, senza addentrarsi troppo nel dettaglio.

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© Mark Steinmetz from ‘South Central (1991-1993)’

Landscape Stories: La fotografia può essere documentazione, descrizione, allegoria… Secondo Lei, quanto conta per una fotografia mascherare l’evidenza, essere allusiva, o marcatamente ambigua?
Mark Steinmetz: “Non c’è nulla di più misterioso di un fatto chiaramente descritto”, scrisse Garry Winogrand. La maggior parte dei tentativi di ambiguità mi risultano come visibilmente maneggiati e infine deludenti. L’ambiguità fine a se stessa è una mera affettazione stilistica. Preferisco di gran lunga il lavoro perspicace di Evans o di Atget a chi crea immagini poco definite o in un altro senso “espressive”, e che troppo facilmente scivolano nello spirituale o nel metaforico. Il lirismo dell’opera di Evans o di Atget è più ricco proprio per la loro descrizione realistica. E’ importante esercitare la misura e imparare come contenere e incanalare la propria passione. Pre-determinare come lo spettatore (lettore) esperirà l’arte porta a un’esperienza che non riesce veramente a risuonare o a smuovere. La poesia modernista, così come la intendo, come la fotografia, si basa sulla raccolta e l’unione di muti frammenti per trasmettere significati e sensazioni (ma non per spiegare). Bisogna lasciare dei vuoti perché lo spettatore/lettore possa porvi la propria immaginazione poetica e libertà di utilizzo.

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© Mark Steinmetz from ‘South Central (1991-1993)’
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© Mark Steinmetz from ‘South Central (1991-1993)’
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© Mark Steinmetz from ‘South Central (1991-1993)’

Landscape Stories: Come può la fotografia essere utile per comprendere la realtà, per affrontare le incertezze sospese, per sciogliere i dubbi?
Mark Steinmetz: Robert Frost afferma che la buona poesia consente una momentanea stasi nella confusione; la buona fotografia crea mondi che sono convincenti e che offrono chiarezza. Alcuni fotografi cercano di mostrare quanto possa essere bella la vita. I dubbi e gli apparenti vicoli ciechi si dissolvono quando una nuova, più alta prospettiva è in sintonia con il contesto. La fotografia come pratica può aiutarci ad allenare la mente e a cambiare la nostra consapevolezza.

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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’
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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’
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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’

Landscape Stories: Ci sono idee che vorrebbe realizzare. Come sviluppa i Suoi progetti? Quali sono il suo approccio metodologico e il suo intento?
Mark Steinmetz: Il mio lavoro scaturisce più da sensazioni e intuizioni che da idee. Cerco di rimanere aperto e di affidarmi all’istinto. Drizzo le mie antenne e aspetto di vedere che cosa captano. Un po’ come il detto conosciuto ai più di “seguire il flusso”. Cerco di non anticiparlo ma di accompagnarlo e di vedere dove mi conduce. Spesso ho idee vaghe che poi rivedo secondo la fotografia che sto realizzando. Cerco di non determinare a priori il risultato né lo stimolo. Cerco di essere onesto verso me stesso su che cosa possa essere davvero avvincente e su che cosa possa funzionare per me.

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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’

Landscape Stories: Parliamo dei provini di stampa. Nella nostra opinione sono molto importanti per buona parte dei fotografi. L’anno scorso in due esposizioni a Parigi, di Andres Petersen e Guido Guidi, erano esposti anche alcuni provini. Sono così cruciali i provini a contatto nel lavoro di un fotografo?
Mark Steinmetz: Beh, lo sono di sicuro se si lavora in analogico. Sebbene io sia piuttosto esperto nell’intuire dal negativo come risulterà un’espressione, solo con l’immagine in positivo se ne può avere la certezza. Capita spesso che se un provino di stampa non è fatto più che bene, si discrimini un’immagine che invece canterebbe se solo stampata un po’ più scura o più chiara, e così non la si seleziona e le si passa accanto. Le stampe a contatto numerate e archiviate in scatole sono l’unico modo che conosco per revisionare meticolosamente i negativi del passato. Vederli sullo schermo di un computer per troppo tempo può essere poco salutare (le nostre pupille effettuano delle rapide piccole contrazioni) ed è meno agevole ripercorre i provini sullo schermo piuttosto che tangibili e cartacei, sparsi sul tavolo e visionati con una lente d’ingrandimento. Forse i miei provini potrebbero essere interessanti per chi volesse capire come approccio e mi aggiro attorno a un soggetto.

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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’
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© Mark Steinmetz from ‘South East (1994-2001)’

Landscape Stories: Partendo dalla Sua esperienza, qual è il limite entro il quale può insegnare fotografia? Quali sono i punti di forza e quali quelli di debolezza?
Mark Steinmetz: Il mio insegnante di meditazione sostiene che non si possa insegnare meditazione, la meditazione si manifesta. Penso che sicuramente parlare ad altre persone del loro lavoro può essere utile, ma così tanti maestri parlano con dovizia, e similmente troppi studenti. Oggigiorno ognuno ha un’idea che vuol essere spesa. I fotografi dovrebbero acquietare le loro menti e praticare di più. Gli odierni docenti di fotografia hanno la tendenza a spingersi pesantemente nella teoria e a dire un po’ di tutto ma senza che questo abbia nulla che vedere con le immagini mostrate. Vorrei che ci fossero più insegnanti come Lee Friedlander, che raramente prende parola a meno di non essere interrogato, e comunque con risposte brevi e dritte al punto. Egli non ha bisogno di parlare; le sue immagini parlano per lui. Lee è un grande fotografo e, chissà, forse c’è un qualche tipo di trasmissione per osmosi, che non può avvenire con fotografi minori. Mi piacerebbe che le mie fotografie fossero il mio insegnamento più di quanto non potrei raccontare ad altri.

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© Mark Steinmetz from ‘Passage (2014-2015)’

Landscape Stories: Athens (Georgia, USA) e Parigi (Francia). Lei è nato negli Stati Uniti, ma ha origini francesi e olandesi, ha fotografato anche in Italia. Quali sono i luoghi che preferisce per fare fotografie? In che modo queste diverse culture possono avere influenzato il Suo operato?
Mark Steinmetz: Amo per lo più fotografare in luoghi che hanno un certo calore. I posti brulli e freddi mi attirano poco, né ho particolare interesse per le zone di guerra o le aree impoverite. Amo i terreni sicuri e la quotidianità. Sembra che ci siano sempre più persone ovunque e che il mondo stia diventando sempre più omogeneo – ci stiamo muovendo nella direzione di un’unica cultura nel mondo.
Mi sento altrettanto a mio agio (o a disagio) in America e in Europa. Mi stimola il Sud-Est asiatico, per quanto sia stato finora solo in Thailandia. Ci sono possibilità per l’America Centrale e per le città maggiori del Sud America. Mi piacerebbe tornare a fotografare a Roma (e in Italia, in generale). Fare un lavoro che può essere interpretato come “esotico” nella percezione occidentale varrebbe la pena di essere esplorato, un giorno. Mi sorprendo sempre del potere dei legami che sento per luoghi diversi, e che non sono davvero chiari neppure a me.

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© Mark Steinmetz from ‘Passage (2014-2015)’
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© Mark Steinmetz from ‘Passage (2014-2015)’
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© Mark Steinmetz from ‘Passage (2014-2015)’

Landscape Stories: Amiamo molto la definizione che dà del Suo lavoro come un viaggio dal paesaggio agreste alla città interiore.
William Faulkner, Joseph Conrad, Cormac McCarthy, Marilynne Robinson, sono un buon esempio dell’essenza di “selvaggio” legata al sogno americano e all’idea di confine. Secondo Lei, in quale modo il Paesaggio può essere considerato fisico, mentale o psicologico? C’è qualche legame tra la letteratura e il modo in cui Lei ha descritto l’America?

Mark Steinmetz: Ritengo che la fotografia sia una forma di letteratura. Tuttavia, certe note non raggiungibili dalle parole possono essere colte dalle immagini. Robert Frank in “The Americans” e Walker Evans in “American Photographs” hanno fatto in un certo senso “Il Grande Romanzo Americano”attraverso le immagini invece che con parole. Mi annovero certo in questo filone.
Il paesaggio può trasmettere umori o elevarsi a metafora di stati psicologici. Ma il paesaggio può anche esprimere un giudizio, una sentenza sulla nostra civiltà. Robert Adams colpisce nel segno con il titolo del suo libro “What We Bought” – un’accusa all’egoismo, alla miopia con cui sfruttiamo la terra.

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© Mark Steinmetz from ‘Early LA work (1983-1984)’
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© Mark Steinmetz from ‘Early LA work (1983-1984)’

Landscape Stories: Pensa di potere associare il Suo approccio alla fotografia a “Lo Zen e il Tiro con l’Arco” di Eugen Herrigel? Cosa può dirci sul prendere parte al corso degli avvenimenti?
Mark Steinmetz: Sì, cito questo libro agli studenti come un libro che Cartier-Bresson indicò da leggere ad altri fotografi. Parte del piacere e dello scopo della fotografia per come la pratico io è di fare di me stesso uno strumento che possa rispondere velocemente alla vita che scorre attorno a me. La fotografia deve rimanere un divertimento, e coltivare la mia abilità nell’anticipare eventi e situazioni al loro svilupparsi è parte del gioco. Una parte di me (la mia mente, soprattutto) deve separarsi quindi non interferisce con le mie risposte intuitive al mondo.
Essere in grado di cogliere l’attimo può essere esilarante ma è anche una conquista, che viene dall’allenamento e dalla pratica. Non vedo molti fotografi oggi avere particolare interesse in questo genere di formazione o nell’esplorazione del mondo dei movimenti sospesi che viene dall’utilizzo di una rapida velocità di diaframma.

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© Mark Steinmetz from ‘Early LA work (1983-1984)’
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© Mark Steinmetz from ‘Early LA work (1983-1984)’

Landscape Stories: Ha preferenze in termini di fotocamera e di formato?
Mark Steinmetz: Continuo ad amare l’analogico, in parte perché ho una buona camera oscura e so come stampare nel modo migliore e più efficace. Generalmente la mia fotocamera preferita è una 6×9 cm ma talvolta lavoro in 35 mm o 4×5 pollici (inches – 9×12 cm). Uso anche una macchina fotografica a soffietto 6×7 cm perché è leggera, compatta e l’otturatore è molto silenzioso, ma non sono un vero fanatico dei formati quadrati.
Landscape Stories: Può suggerirci tre libri di fotografia che ha particolarmente amato?
Mark Steinmetz: Ho già citato “The Americans” di Robert Frank e “American Photographs” di Walker Evans. Aggiungerei uno qualsiasi dei libri di Szarkowski/Hambourg di Atget, ma in particolare “L’Ancien Régime”, incentrato sui suoi ultimi lavori nei parchi nella periferia di Parigi.

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© Mark Steinmetz from ‘Greater Atlanta (1994-2009)’

Landscape Stories: Ha visitato esposizioni di recente che l’abbiano in particolar modo ispirata?
Mark Steinmetz: Hmm, ho visto da poco una retrospettiva su Stephen Shore a Berlino. I grandi formati dalla serie “Uncommon Places” erano interessanti.

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© Mark Steinmetz cover of the book ‘Greater Atlanta’
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© Mark Steinmetz cover of the book ‘South Central’
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© Mark Steinmetz cover of the book ‘South East’

Landscape Stories: Che cosa può dirci delle Sue collaborazioni (Raymond Meeks, Irina Rozovsky, Little Brown Mushroom, etc.)? Magari può soffermarsi su una qualche esperienza personale…
Mark Steinmetz: Per me la fotografia è sempre una questione di collaborazione. I fotografi collaborano con gli eventi, e con l’universo. Ho avuto maestri e colleghi. Non potrei dire di “essermela cavata da solo”, anche se ero sempre io quello là fuori a scattare. La mia collaborazione più duratura è stata con Chris Pichler, con cui ho fatto numerosi libri per la sua Nazraeli Press. Da lui ho imparato molto sull’associazione e il treno di immagini. La collaborazione con The Little Brown Mushroom non si è poi concretizzata. Ray mi ha cercato a lungo per la sua serie Orchard ed era il motore di “Idyll”, il libro che abbiamo fatto assieme mescolando fotografie che avevo scattato nei boschi a immagini in cui lui ritraeva sua figlia. Con Irina abbiamo collaborato a un sito web “A New Nothing”, in cui lei pubblica un’immagine, a cui ne segue una mia, e così via in un dialogo fatto dalle nostre fotografie, molte delle quali fatte con l’iPhone. Potremmo pensare a dei libri assieme lavorando sullo stesso terreno, lei a colori, io principalmente in bianco e nero.

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© Mark Steinmetz from ‘Tuscan Trees (1990′s)’
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© Mark Steinmetz from ‘Tuscan Trees (1990′s)’
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© Mark Steinmetz from ‘Tuscan Trees (1990′s)’
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© Mark Steinmetz from ‘Tuscan Trees (1990′s)’

Landscape Stories: Ci racconti la Sua “Storia di Paesaggio” più curiosa.
Mark Steinmetz: Tanto tempo fa, stavo fotografando tra gli uliveti nei dintorni di Cortona – quelle immagini avrebbero più tardi composto il mio primo libro, “Tuscan Trees”. Gli Etruschi sono stati tra quelle colline e, più tardi, San Francesco. Non so bene come definire il momento che ho vissuto. Le colline che mi circondavano d’improvviso presero vita con straordinaria vividezza, e sotto quell’erba alta potevo sentire il battito del cuore della Terra.

www.marksteinmetz.net

Intervista a cura di Marina Caneve e Gianpaolo Arena
Traduzione a cura di Hélène Duci