Interviste

Tim Carpenter • Photographer, U.S.A.

Local Places and Particular Objects

Landscape Stories: Quale opera poetica o artista ha ispirato maggiormente i suoi inizi? Potrebbe parlarci di come Walker Evans o altri artisti hanno influenzato il suo lavoro? Quale fotografo la ha condizionata di più? Dove possono essere trovate le radici del suo lavoro?
Tim Carpenter: Il mio interesse per la poesia ha solo pochi anni, quindi non si ritrova molto nei miei inizi. La prima cosa che in qualche modo mi ha ispirato è stata la musica, ma aspetterò ad approfondire fino alla sua prossima domanda sull'argomento.

 È stato vedendo le foto di Robert Adams che si è sviluppato il mio interesse per una determinata tipologia di fotografia. Ho lavorato al Portland Museum of Art (Oregon, USA) e nel 1998 ho mostrato alcune delle mie prime (e pessime) stampe al curatore di fotografia Terry Toedtemeier. Era stato eccezionalmente gentile nell’esaminarle e mi suggerì di guardare il lavoro di Adams presente nella collezione del museo, insieme alle stampe di Stephen Shore e Joel Sternfeld. Tutti e tre mi hanno fatto sussultare, ma è stato Adams ad attirare la mia attenzione con più forza, da allora fino ad oggi.

Ricordo di essermi avvicinato a Walker Evans (che ammiro profondamente, ma la cui influenza su di me è probabilmente più indiretta) e anche a Eugene Atget facendo ricerche a ritroso partendo da Adams, e da Lee Friedlander, Robert Frank, Helen Levitt, William Eggleston, Garry Winogrand, così come ho guardato ai contemporanei. Da subito ho pensato che Friedlander fosse il più grande esempio di come una persona - o piuttosto un'intelligenza - potesse organizzare il mondo usando una macchina fotografica; le sue foto continuano a sbalordirmi e ad essere di insegnamento.

Ma ciò che ha avuto davvero una grande influenza su di me - su quello che volevo fare e voglio ancora fare - è stato vedere qualche tempo dopo “The Pond” di John Gossage. Avevo sicuramente visto fotolibri fortemente omogenei prima (come “American Photographs” e “The Americans”, ovviamente), ma nulla mi era mai sembrato così ferocemente coerente, molto più simile a un pezzo di letteratura che a una serie di fotografie. Suggeriva qualcosa di diverso che apparentemente andava al di là del suo stesso tema.

“The Pond” mi ha elettrizzato, sia nel modo di pensare a come le mie immagini potessero essere realizzate, sia nel modo di costruire i libri. Infine, il modo in cui faccio entrambe le cose si è evoluto studiando approfonditamente il lavoro di altri due grandi creatori di immagini e di libri: Michael Schmidt e Raymond Meeks.

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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017
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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017
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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017

Landscape Stories: Come ha iniziato a fotografare?
Tim Carpenter: Mio padre è stato un fotografo per tutta la vita (ha fatto migliaia di foto ai treni e centinaia alla nostra famiglia), e quindi da bambino non mi è mai mancata una macchina fotografica. Non ricordo mi abbia mai detto di no quando chiedevo una pellicola o che me ne sviluppasse una, anche se a un certo punto deve aver posto un limite. Devo, a lui (e a mia madre), tutto, ma sono molto grato a mio padre per avermi passato l'amore per la macchina fotografica.

 Ho comprato una reflex quando avevo 25 anni circa, e ho scattato regolarmente, ma - come dicevo poc’anzi - è stato sotto la guida di Toedtemeier, che finalmente ho capito che per me poteva essere qualcosa di più che un hobby.

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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017
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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017

Landscape Stories: Lei è sia un fotografo che uno scrittore. In che modo un aspetto ha influenzato l’altro?
Tim Carpenter: Questa è una domanda davvero interessante, ed è qualcosa che sto ancora cercando di capire. Quando frequentavo il master, ci è stato detto (correttamente) che gli elaborati scritti che ci venivano richiesti ci avrebbero aiutato a pensare più chiaramente alle nostre fotografie. Ma naturalmente, in quell'ambiente, non c'è una reale enfasi sulla scrittura che abbia davvero un effetto concreto sulla creazione di immagini.

 Ma ora, con circa tre anni proficui di saggi nel mio bagaglio, so che scrivere con costanza ha avuto un impatto sul modo in cui faccio fotografia. Un esempio: ho scoperto che quando scrivo, almeno inizialmente, devo farlo liberamente con poco o nessun montaggio, producendo molto più materiale di quanto non entrerà mai in nessun saggio. Ci sono molti vicoli ciechi nelle prime bozze, ma capita che un pensiero fruttuoso si faccia strada solo grazie all'atto di scrivere. Questo può sembrare ovvio, ma non lo era per me all’inizio: tu (o almeno io) non possiamo semplicemente sederci intorno a un tavolo e pensare di creare un argomento persuasivo; deve essere scritto e quindi sottoposto a un profondo esame per verificarne la coerenza. E proprio nell'atto di scrivere, nel creare una struttura, nel seguire flussi e transizioni, vengono in mente cose nuove (e spesso migliori), che poi diventano parte della scrittura stessa. È una sorta di ciclo continuo di rimandi.

Questo insegnamento mi ha dato modo di essere estremamente generoso con me stesso nell'uso della pellicola. Faccio molti negativi. Un sacco. Quando "saggio" è coniugato come verbo, significa provare o tentare; o mettere alla prova, o fare un processo di. Io faccio molte prove con la macchina fotografica come quando mi trovo a scrivere. 

Un esempio più specifico: le reazioni ai miei scritti pubblicati sul sito web di TIS Books ha ampliato il mio pensiero su ciò che le persone nel nostro mondo vogliono davvero leggere. Abbiamo pubblicato un saggio intitolato "I remember" alla fine del 2015 e mi chiedevo se un pubblico di fotografi potesse pensare che fossi pazzo per aver parlato dei Pink Floyd, delle piste di pattinaggio, dei testi di "The Rose" e di aver perso un amico d'infanzia. Volevo davvero aprire il mio cuore, e l'ho fatto, e la risposta è stata positiva e quasi travolgente.

 Quindi, quando è arrivato il momento di contribuire a TIS02 (la pubblicazione in quattro parti di TIS Books che include i miei amici J Carrier, Nelson Chan e Carl Wooley) ho preso la decisione di contribuire con una cosa che avevo fatto e intitolato “The King of the Birds”; il libro consiste interamente di immagini di mio nipote, immerso in un mondo immaginario, e realizzato nel corso di una decina di minuti. A un certo punto ho pensato che il lavoro fosse forse troppo romantico. Ma con la fiducia acquisita dalla scrittura (e dai lettori generosi), ho deciso di rischiare il sentimentalismo per dire quello che volevo veramente dire. Il libro non è per tutti (proprio come i miei saggi non lo sono, ovviamente), ma ne sono molto contento anche per come si colloca tra i libri che ho realizzato finora.

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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017
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© Tim Carpenter – The king of the birds, TIS books, 2017

Landscape Stories: Quanto Poesia e Prosa sono presenti nel suo lavoro fotografico? C'è qualche tipo di connessione tra la letteratura e il modo in cui ha descritto l'America?
Tim Carpenter: Si arriva al punto in cui non è più la fotografia a essere il mio principale interesse, ma la letteratura. Poiché considero che la letteratura si debba esprimere non solo in romanzi e poesie, ma anche in immagini e musica.

 Ma naturalmente la mia attività principale è quella di creare immagini, e penso costantemente sia alla poesia (in particolare la poesia lirica, dovrei dire) sia alla prosa in relazione ad essa. Ma non come qualcosa tipo materiale di ispirazione o come qualcosa da utilizzare contemporaneamente alle immagini. Piuttosto, penso a come si generino e funzionino, a come si sovrappongano e che cosa potrebbe significare in un lavoro con la macchina fotografica (e quindi magari alla fine tirarne fuori un libro).

 È sicuramente un’approssimazione, ma ritengo utile sottolineare che la prosa descrive un'esperienza, mentre la poesia incarna un'esperienza. Yeats ha detto: "Dalla lite con gli altri facciamo retorica; dal litigio con noi stessi facciamo poesia". È possibile che qualcuno veda una divisione netta tra un approccio in prima persona e uno in terza persona. In entrambe queste distinzioni, ovviamente, c'è una profonda e significativa correlazione.

 Con “Local Objects”, il mio approccio era interamente in prima persona. In effetti, un momento importante nell'evoluzione di quelle immagini è stato quando ho iniziato a capire che alcune di queste erano un po’ retoriche e quindi avrebbero dovuto essere rimosse dal progetto. Riflettendoci penso che sia un peccato che "prosaico" e "retorico" vengano letti in qualche modo con delle connotazioni peggiorative. Leggo prosa voracemente, e questo aspetto ha un ruolo importante nel pensare alle immagini in modo costruttivo. Detto questo, è la poesia che negli ultimi anni ha più pesantemente influenzato il mio modo di relazionarmi alle immagini, ed è proprio il lavoro di Wallace Stevens ad avere avuto il più grande impatto. 

Adoro Stevens soprattutto per la sua tenacia nel perseguire il suo progetto, lungo tutta la sua vita, di esplorare lo spazio tra la mente e il mondo. È spesso visto come un poeta romantico con la "R” maiuscola perché credeva nella fondamentale importanza dell'arte nelle vite vissute veramente. Ma, in una distinzione cruciale per i Romantici, sapeva che non doveva mai esserci un'unione trascendente del sé e del non sé, attraverso l'arte o con qualsiasi altro mezzo. Si accontentava invece di restare nel reale e di valutare costantemente la sua intelligenza e la sua immaginazione contro i fatti ostinati di questo mondo, e di tracciare quindi i risultati lungo un continuum tra il sé e tutto ciò che non è il sé.

 Ciò che questo equilibrio significava, in pratica, era che a volte l'immaginazione era in espansione, spingeva contro la realtà e la trasformava attraverso la metafora (o, meno frequentemente nel suo caso, il simbolismo). I suoi primi lavori sono noti per la sua ricchezza di linguaggio e di metafore. Al contrario (anche semplificando forse un po’ troppo), il suo ultimo lavoro descrive un mondo che si oppone fermamente all'immaginazione, quasi sopraffacendola; un mondo molto più semplice quasi "decreato" nella parola che ha preso in prestito da Simone Weil.

 Dico tutto questo per spiegare cosa ho preso da Stevens e come ispiri sia il modo in cui realizzo le immagini che il modo in cui scrivo. In pratica: a volte la nostra immaginazione permea l'esperienza. In altre parole, creiamo una proiezione (la cui ultima espressione è il solipsismo). Penso che la proiezione sia fondamentalmente la nostra modalità predefinita, ed è la ragione per cui è così facile essere auto-coinvolti e pensare a se stessi come il centro dell'universo.

 Ma anche: a volte il mondo può respingere. O meglio, possiamo lavorare attivamente per consentirgli di farlo. Iris Murdoch definisce questo "astrarsi da sè". Nella sua grande ultima poesia "The Rock", Stevens scrive: "Non è sufficiente coprire la roccia con le foglie. / Dobbiamo curarci con una cura del terreno / O una cura di noi stessi, che è uguale a una cura / del terreno”. In definitiva, non puoi semplicemente abbellire le rocce con foglie immaginarie; devi lasciare che il mondo sia solo se stesso; e questo richiede lavoro su di te.

 Ma questa è solo una poesia. In altri contesti, potrebbe contraddirsi. Ma va bene, perché non ci sono necessariamente risposte giuste o sbagliate nel sondare il baratro esistente tra la mente e il mondo (sebbene naturalmente ci siano questioni di giusto o sbagliato nelle nostre considerazioni conseguenti sugli oggetti estetici). L'obiettivo è riconoscere attivamente che proiettiamo, e anche che possiamo resistere alla proiezione e fare del nostro meglio per lavorare con quella conoscenza - e che l'attività è poesia. Ma può essere anche fotografia. 

Così ora mi rendo conto che questa risposta è piuttosto lunga e sta diventando come uno dei miei saggi. Ma sono contento di poter scrivere in risposta a una domanda così, perché altrimenti non avrei potuto spiegarlo meglio. E ancora! Non sono nemmeno arrivato alla seconda parte della sua domanda, alla connessione tra la letteratura e il modo in cui ho descritto l'America.

Prima di tutto, non sono così sicuro di descrivere l'America di per sé. Quello che posso dire con più sicurezza è che rispondo al mondo in un modo che è radicato nella mia lettura di due scrittori tipicamente americani: Marilynne Robinson e William Maxwell. Sebbene non la consideri un’autrice regionale, non è un caso che lei scriva spesso dell'Iowa e dell'Illinois. In entrambi, le descrizioni del mondo sono generalmente dirette e chiare in un modo tipico del Midwest, con pochi aggettivi fioriti o metafore estese (con l’eccezione di “Housekeeping”, il suo primo romanzo). I personaggi di Robinson e Maxwell (molto spesso narrati in prima persona) conducono una vita degna di nota attraverso le interazioni con un mondo difficile da gestire che rimane per sempre alienato. La bellezza profonda e fuggevole cui vanno incontro è quindi quella in qualche modo sostenuta da Stevens.

 Quindi mi permetta di ricondurlo a “Local Objects” (L'ho già descritto brevemente nella mia precedente intervista con Landscape Stories). Volevo trovare un modo per esprimere in immagini il mio sentimento di transitorietà che era stato sollecitato piuttosto profondamente da libri come “Gilead” e “So Long, See You Tomorrow”. Come dicevo, nel periodo in cui il progetto non ancora aveva un nome reale, l’avevo chiamato "the Housekeeping pictures", rifacendomi al tema dell'impermanenza del libro della Robinson. Poi ho trovato un metodo per cui usare le composizioni verticali - spesso con uno spazio inattivo in primo piano – in modo da suggerire la distanza tra sé e il mondo, e nel variare tale distanza nel corso del libro per enfatizzare l'incessante attività di calibrazione di questa misura.

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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017

Landscape Stories: In un mondo migliore, quale ruolo potrebbe giocare l'arte? Perché l'arte per lei è importante?
Tim Carpenter: Ho quasi immaginato questa cosa a ritroso: un mondo migliore potrebbe essere il risultato dell'arte che interpreta solo il ruolo che fa ora, tranne che il suo effetto deve essere molto più diffuso. Tale ruolo è la ragione per cui l'arte è importante per me.

 Si dice che i lettori di romanzi sono più bravi a immaginare la vita interiore degli altri, e quindi tendono ad essere più empatici. Penso che l'impegno con altre forme d'arte possa anche influenzare un "astrarsi da sé" che è antitetico alle ideologie politiche e ci permette di vedere più facilmente l'umanità di base in ogni altra persona (lo stesso che risiede in ognuno di noi). Quando questo accade, è più chiaro che non siamo in un gioco a somma zero in cui gli altri devono perdere in modo da essere noi quelli a poter vincere.

 Non mi piace molto l'attuale presidente degli Stati Uniti, ma non riesco a odiare tutte le persone che hanno votato per lui. Se c’è una cosa che mi ha insegnato la mia esperienza con l'arte - che sia leggere, ascoltare, vedere o fare - è che le persone sono troppo complesse ed è impossibile ridurne la comprensione a una decisione presa in un giorno. (Il che non vuol dire che la decisione in sé non sia stata terribile).

 Chissà, forse pensare che faremmo tutti scelte - non solo politiche - differenti solo per essere stati esposti a più opere d'arte è fantasioso. Ma puoi scommetterci che male non può fare.

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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017

Landscape Stories: La fotografia può essere documentazione, descrizione, allegoria... Secondo lei quanto è importante per una fotografia nascondere le prove, essere allusiva o rafforzare un forte elemento di intuizione?
Tim Carpenter: Wow. C’è un sacco di roba seppur in una domanda così breve. Credo che partirei sempre con qualcosa di simile a un elemento di intuizione, sebbene non possa usare esattamente questa parole. Forse invece direi che è una visione peculiare, che è la cosa più importante per me nel valutare una fotografia o un libro di fotografia. Questo non significa affatto che le immagini siano strane o bizzarre. Piuttosto, voglio dire che un'immagine dovrebbe dimostrare un'intelligenza unica, che è caratteristica di ognuno di noi. (E mi chiedo se questo non sia il motivo per cui sono attratto dal modulo del libro di fotografia. Con così tante foto singole di qualità fatte in continuazione, spesso si ha il bisogno di vedere un paio di foto e anche qualcuna in più per iniziare a identificare un vero segno distintivo dell’autore e di quali potrebbero essere le sue influenze su di noi). 

Se quella caratteristica è stabilita (un grande se, ovviamente), allora suppongo che il successo dell'immagine dipenda meno dal fatto che il fotografo si stia nascondendo o rivelando o qualsiasi altra cosa nel mezzo. La mia preferenza personale, tuttavia, è in linea con quella di John Szarkowski: "La visione del fotografo ci convince fino al punto in cui il fotografo nasconde la sua mano." Ecco perché penso che una totale allegoria sia un compito difficile per una fotografia; conosco solo alcuni fotografi che riescono ad arrivarci.

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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017

Landscape Stories: In molti dei suoi paesaggi urbani e delle sue fotografie di architettura, si riscontra la capacità di personificare l'ambiente che la circonda. Sembra evidente che lei abbia una stretta relazione con le cose che fotografa. In che modo la fotografia può contribuire a "reinventare" l'esperienza visiva?
Tim Carpenter: Mi piace l’idea che le mie foto personifichino l'ambiente. Sono particolarmente affascinato da questa domanda perché, piuttosto che avere una relazione intima con le cose che fotografo, mi sento al contrario profondamente alienato da loro. Questo è vero non solo per il paesaggio e l'architettura, ma anche nelle foto che ho fatto a mio nipote e che è diventato poi “The king of the birds”. Il che non significa affatto che io sia in realtà estraniato da lui; lo amo molto e ho la fortuna di passare molto tempo con lui. Quello che voglio dire è che sto cercando di usare una macchina fotografica per capire e manifestare l'estraneità che provo dal mondo.

Tutto ciò risale a quella calibrazione, che ho menzionato prima in Wallace Stevens, che misura il divario incolmabile tra il sé e il non-sé. Per me, una buona immagine è come una scintilla o una sinapsi, una fugace connessione tra la mente dell’autore e un mondo disorientante. O in realtà l'immagine è il monumento furtivo a quella connessione, l'ultimo bagliore della scintilla. Le immagini migliori sembrano tutte appropriate e inappropriate allo stesso tempo.

 Bene, mi sono allontanato un po' dal punto di vista della stretta relazione con l'argomento. Quello che posso dire è che la relazione è più con lo spazio tra me e il soggetto - e ciò include sia la distanza fisica che quella metaforica. La mia più forte convinzione è che ci siano esperienze della mente e del mondo che si esprimono meglio attraverso le fotografie. (Altre invece lo fanno meglio attraverso poesie o canzoni o opere teatrali). 

In relazione alla sua domanda su come reinventare l'esperienza visiva, ho scritto un saggio su questo argomento non molto tempo fa. E la risposta è assolutamente sì: l'esperienza è più che semplicemente reinventata; l'immagine deve essere vissuta come una cosa nuova nel mondo. Non solo non si può limitare al soggetto stesso – e nemmeno alla sola esperienza diretta di questo – se l'immagine non può suggerire qualcosa di più grande e diverso dal suo soggetto necessariamente fallisce. C'è un pensiero della critica di poesia Elizabeth Drew che ho trovato di grande valore: "Un senso di sé è ciò che sostiene la poesia, e non un senso del mondo. Si inventa: la sua stessa necessità o urgenza, il suo tono, la sua mescolanza di significato e suono sono nella voce del poeta. È in un tale isolamento che genera la sua stessa autorità. "

Direi lo stesso di ogni immagine che ammiro: genera la sua stessa autorità.

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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017
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© Tim Carpenter – Local Objects, The Ice Plant, 2017

Landscape Stories: Secondo lei in che modo il Paesaggio potrebbe essere considerato fisico, mentale o psicologico?
Tim Carpenter: Penso che Robert Adams abbia centrato il punto quando ha detto che le immagini di paesaggio offrono tre verità: geografia, autobiografia e metafora. "Presi insieme", ha scritto, "i tre tipi di informazioni si rafforzano a vicenda e rafforzano quello a cui tutti noi lavoriamo per far sì che rimanga intatto - un affetto per la vita".

 Rispetto alla tua domanda, potremmo con successo correlare la geografia con la fisica, l'autobiografia con la mente e la metafora con la psicologia. E in realtà questo rinforza solo alcuni temi di cui ho già parlato: che l'immagine è un incontro di una mente (un'autobiografia, se mai ce ne fosse una) e il mondo fisico. Il successo estetico del quadro si basa sulla metafora (o forse sul simbolismo) che suggerisce qualcosa oltre la semplice geografia.

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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017
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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017

Landscape Stories: Quando guardo al suo lavoro sul Midwest americano, la mia colonna sonora immaginaria è ricca di echi di Charley Patton, Son House, Skip James, Blind Willie McTell. O alcuni dei miei cantautori preferiti come Will Oldham e Bill Callahan. Qual è la sua musica preferita? Che opinione ha della musica contemporanea?
Tim Carpenter: Mi piace molto la sua colonna sonora immaginaria, così come i suoi cantautori preferiti. La musica è estremamente importante per me. Dopo un'infanzia ad ascoltare alla radio principalmente il rock classico e il pop (che tuttora amo), quando avevo 16 anni ho sentito "Radio Free Europe" e tutto è cambiato. “Murmur” era profondo, enigmatico e propulsivo e per la prima volta mi sentivo come se stessi ascoltando il futuro - il mio futuro, possibilmente - piuttosto che il passato. I R.E.M., grazie alla realizzazione di numerosi grandi dischi, hanno fornito una sorta di guida per chi voleva essere un adulto intelligente e consapevole che voleva trovare il modo di resistere sia al conformismo che al nichilismo. Spero che ciò si manifesti in tutto ciò che dico o faccio.

 Allo stesso modo, la musica dei Wilco mi ha aiutato ad affrontare la mezza età e a vedere la vita come una promessa e una sfida per essere produttivo e utile. Vedere la band suonare è ancora per me il modo più diretto per astrarmi.

 Mi manca decisamente la presenza di Vic Chesnutt, i cui testi tengo in estrema considerazione. Sono grato che sia stato così prolifico nella sua produzione; so che lo ascolterò fino al giorno in cui morirò e che non mi avvicinerò mai a scoprire tutte le sfaccettature di desiderio e volontà nelle sue canzoni. Ma ci proverò.

 Come ho detto prima, vedo questi musicisti - e molti altri - come creatori di una letteratura che ha influenzato il modo in cui affronto la vita e quindi a come faccio le foto. Siccome non posso resistere a un’opportunità del genere, ecco alcune altre ragioni per cui ascolto musica: il catalogo di Lucinda Williams contiene quasi tutto ciò che devi sapere sulle persone nei luoghi americani; “Astral Weeks” è la più grande testimonianza documentata dell'espansività dell'immaginazione umana; non esiste genio più grandioso che abiti questo pianeta di Erykah Badu; Sufjan Stevens può guardare nei luoghi più tristi e oscuri e tornare con canzoni che in qualche modo rendono tutto migliore; vedere PJ Harvey suonare ti fa venir voglia di essere un artista migliore; veder suonare Patti Smith ti fa venir voglia di essere una persona migliore; vedere Rickie Lee Jones suonare ti fa pensare che possa esserci una divinità benevola; Hedwig and the Angry Inch mi ha insegnato come usare il dolore dell'incompiutezza e farne qualcosa; Lyle Lovett sorride quando canta, e perché non farlo quando puoi scrivere così? Mighty Joe Moon, di Grant Lee Buffalo, si pone tranquillamente accanto a qualsiasi grande romanzo americano; Victoria Williams è una fotografa che usa una chitarra invece di una macchina fotografica; Fleetwood Mac e Rumors suonano ancora come nuovi miracoli; ascoltando le Sleater-Kinney ti sentirai sollevato anche dal più cupo degli umori; Elliott Smith potrebbe riportarti lì, ma nel modo più giusto e vero; Dylan non potrà mai essere sopravvalutato; Willie Nelson è migliore di tutti gli altri; e Dolly Parton è anche meglio.

E questo è solo il rock, il country e il pop. Non riesco a pensare abbastanza all’hard bop (Sonny Rollins, Horace Silver, Art Blakey in tutte le sue incarnazioni) e l'inventiva di Ornette Coleman sembra infinitamente strana e incomprensibile. I quartetti d'archi di Beethoven (specialmente i più tardi) e Shostakovich sono compagni costanti, così come le composizioni di Morton Feldman. In effetti, la musica di Feldman, di tutto ciò che mi ha colpito, ha avuto l'impatto più pratico e diretto su come ho realizzato “Local Objects”, in termini di silenziosità, ritmo e ripetizioni.

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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017
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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017

Landscape Stories: "Township / Bement grain" (TIS / dumbsaint, 2017) è un libro realizzato in collaborazione con Raymond Meeks, Brad Zellar e Adrianna Ault. Potrebbe dirci qualcosa di più su questa collaborazione?
Tim Carpenter: Sono amico di Ray da diversi anni, ci siamo scambiati pareri sulle nostre foto e abbiamo parlato di arte e vita, innumerevoli volte. Quando ha deciso di "riprendere" Orchard Journal - la sua collaborazione in tre parti con altri artisti: Mark Steinmetz, Deborah Luster e Wes Mills - mi chiese di essere il primo a partecipare. Sono rimasto basito; come ho detto prima, Ray è un eroe e un’ispirazione sia per fare foto sia per realizzare libri.

 Avevo pensato che dovesse essere un libro invernale, e ho fatto un sacco di foto a dicembre e gennaio con una mezza idea in testa per il progetto. A Ray sono piaciute e ha risposto con le immagini che aveva realizzato, sempre in inverno, con la sua compagna Adrianna. Ci è piaciuto il modo in cui le immagini riuscivano a stare insieme, ma anche se ne avevamo molte c’erano solo un paio di vaghe idee per strutturare i due corpi di lavoro. Ray suggerì di coinvolgere un editor ospite, e sapevamo entrambi che Brad sarebbe stato la persona ideale. È tornato con alcune modifiche e una sequenza che sembrava giusta, e ha detto che, per coincidenza, aveva recentemente scritto un breve racconto che si adattava bene alle immagini. Abbiamo amato la storia e così l'abbiamo inclusa nel progetto finale come un opuscolo indipendente.

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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017

Landscape Stories: Quali immagini vorrebbe avere nel suo museo ideale? Sia del passato che contemporanee...
Tim Carpenter: Questa domanda mi ha fatto sognare ad occhi aperti, avere un museo e un budget illimitato mi porterebbe a una risposta senza fine. Al suo posto invece le racconterò della mostra che ho pensato di curare e che vorrei chiamare “What Will Suffice” [Ciò che basterà]. (Sto già esplorando questa idea con la giuria per una Open Call con Oranbeg Press). 

Ho menzionato prima il concetto di "decreazione" di Weil; Wallace Stevens prese volentieri in prestito la parola per un'idea che aveva sempre avuto, e Anne Carson scrisse un intero libro (o meglio un mucchio di cose diverse e squisite tutte contenute tra le copertine dei suoi libri) sul tema. Ecco Weil: "Decreazione: per fare qualcosa creato passare nell'increato. Distruzione: fare in modo che qualcosa creato passi nel nulla. "

Secondo me quando misuriamo quella voragine tra la mente e il mondo, "creiamo" proiettando attivamente le idee ricevute (e talvolta, si potrebbe sperare, crearne di nuove) sulle cose del mondo. Allo stesso modo, diciamo che le cose sono "create" perché intrise di significati ricevuti.

 Noi "decostruiamo" attraverso uno sforzo concentrato di proiettare il meno possibile e permettere al mondo di essere se stesso. (Questo, ovviamente, è in definitiva impossibile, ma ciò non indebolisce il valore dello sforzo). Una cosa "decreata" è una cosa che è stata liberata dalle nostre proiezioni. (Anche in questo caso, non è possibile raggiungere il 100%, ma prendiamolo per buono). 

La mia idea sarebbe quella di raccogliere e mettere insieme quei fotografi e le loro immagini e i libri che si distinguono per un alto livello di decreazione. Il che probabilmente è (lo sto ancora ipotizzando) un altro modo per dire che il fotografo è in questi casi più interessato ai problemi formali di comunicabilità piuttosto che verosimilmente a qualsiasi altro argomento. 

Detto questo, non sarà una sorpresa che “The Pond” sia il mio testo centrale. Un'altra cosa che non sorprenderà: Gossage ritiene che Atget sia il massimo degli insegnanti. Sono d'accordo, e sceglierò il francese. Potrei usare Evans e Frank come esempi di un certo tipo di fotografia. Apprezzo il loro lavoro - e immagino che la maggior parte della gente sia d'accordo - a causa dei simbolismi che derivano da argomenti come automobili, pubblicità, religione e simili. Tutto ciò serve a creare piuttosto che a decreare.

 Sarebbe divertente scegliere le cose più giuste di Friedlander; le sue immagini possono inizialmente sembrare così "costruite", ma in realtà si basano molto poco sulle idee ricevute. Non tutto il lavoro di Robert Adams troverebbe spazio nella mostra: Listening to the River è uno schianto, e così è Notes for an Overcast Day. I punti di forza di Los Angeles Spring e California risiedono, credo, nel fatto che resistono alle proiezioni che si hanno su quella città e quello Stato a favore del mondo reale. Al contrario, Turning Back, in sintonia con la questione del degrado ambientale, non troverebbe posto in questa mostra. Allo stesso modo, avrei bisogno di 89/90 e Natur di Schmidt, ma non Waffenruhe.

È divertente perché questa domanda mi ha portato molto più in là di quanto non sia mai stato prima nello specificare i contorni del mio tema curatoriale. Quindi non mi ci faccia pensare troppo; anche se un po’ mi servirebbe. E non infierisca sulla la mia mancanza di conoscenza, che è vasta e profonda - sono sicuro che non sto affrontando cifre importanti. Quindi se ha dei suggerimenti mi illumini e non mi lasci nell’oscurità!

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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017
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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017

Landscape Stories: Quale libro sulla fotografia consiglierebbe?
Tim Carpenter: Tutti i libri di Robert Adams sono essenziali. Altri compagni costanti sono stati: Time Pieces di Wright Morris; The Photographer's Eye e l’introduzione a The Work of Atget di John Szarkowski; The Nature of Photographs di Stephen Shore; Core Curriculum di Tod Papageorge; The Pleasures of Good Photographs di Gerry Badger. 

Let Us Now Praise Famous Men non riguarda la fotografia di per sé (e ci puoi trovare tante scempiaggini e tanta bellezza in egual misura), ma è un must.

 Spesso consiglio ai fotografi How Fiction Works di James Wood e loro mi ringraziano sempre. La sua discussione su cose specifiche come lo stile indiretto libero, l’indicazione del tempo e i dettagli sono sorprendentemente applicabili alla creazione di immagini, così come la sua teoria generale su come la struttura e lo stile funzionano effettivamente per rendere la fiction comunicabile e bella. Alcuni altri libri di saggi di non fotografi: Mysteries and Manners di Flannery O'Connor; When I Was a Child I Read Books e The Givenness of Things di Marilynne Robinson; e Ambition and Survival di Christian Wiman (non lasciatevi dissuadere dal titolo pesante).

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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017
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© Tim Carpenter – township, TIS/dumbsaint, 2017

Landscape Stories: A cosa sta lavorando attualmente in ambito fotografico? Che cosa si aspetta per il 2018, fotograficamente o in altro modo?
Tim Carpenter: A rischio di sembrare un po’new-age, sto lavorando principalmente su me stesso: leggere e ascoltare il più possibile. Come ho detto prima, faccio costantemente delle foto e sto diventando più capace di vedere i cambiamenti nel mio modo di pensare (non necessariamente progressi, solo cambiamenti) riflessi nelle immagini che creo. Mi piace. 

Ho un numero di progetti più o meno conclusi, e probabilmente starò fermo su questi per un po'. C'è molto da fare per sostenere un ambizioso programma di pubblicazione per TIS books quest'anno, e sono entusiasta di lavorare a una collaborazione con Nathan Pearce, un amico e grande fotografo che vive nel sud dell'Illinois. Grazie alla buona accoglienza del mio libro, esporrò anche, facendo inoltre discorsi e lezioni, tutte su piccola scala. Tutto ciò è molto gratificante; Non potrei essere più felice di far parte di questa comunità di persone che amano creare e guardare fotografie.

www.timcarpenterphotography.com
theiceplant.cc

Intervista a cura di Gianpaolo Arena
Traduzione a cura di Christian Tognela