Landscape Stories: Quale poetica o forma artistica ha influenzato maggiormente i suoi esordi? Quali possono essere considerate le radici del suo lavoro? Quale artista l'ha influenzata di più?
Thilde Jensen: Sono cresciuta in Danimarca e negli anni più formativi della mia infanzia ho vissuto a Esbjerg, una comunità di pescatori e marinai che non offriva molto in termini di arte e cultura, ma aveva questo grande teatro sperimentale gestito da un gruppo di vecchi figli dei fiori. Sentendomi diversa e lottando costantemente contro le prese in giro a scuola, questo teatro è diventato il mio rifugio. A teatro abbiamo fatto sia spettacoli circensi che sperimentali con elementi del Theatre of the Absurd. Adoravo il nostro teatro e fondamentalmente vivevo lì nel periodo di allestimento degli spettacoli. Quando avevo sedici anni, io e un amico partimmo per un viaggio attraverso l'Europa in interrail facendo teatro di strada. Avevamo messo in piedi uno spettacolo in cui facevo il mangiafuoco e camminavo sul vetro esibendomi in una performance di danza e mimo. Ripensandoci, credo che questa prima esperienza nel teatro sperimentale con l'accettazione dell'assurdo come parte della vita reale sia stata più formativa di qualsiasi influenza successiva. Quando mi sono trasferita a Copenaghen, più tardi quello stesso anno, e ho lasciato il teatro, il mio interesse si è spostato sul cinema, specialmente sui film di Ingmar Bergman. Ero attratta dai rigidi paesaggi emozionali e dalle esperienze a volte surreali che i suoi film rappresentavano e, naturalmente, dalla bellezza visiva della cinematografia di Sven Nykvist. Ricordo di aver scritto un saggio su 3 film di Ingmar Bergman, "Persona", "L'ora del lupo" e "Il settimo sigillo". Devo aver passato settimane intere ad esaminare ogni film, quasi fotogramma per fotogramma, suddividendo le immagini e scrivendo il dialogo in modo da poterli analizzare. A causa di questo profondo tuffo nell'universo cinematografico di Ingmar Bergman, penso che a livello subconscio questi film si siano fusi con me e siano diventati nel tempo parte del mio paesaggio visivo.
Sono sempre stata emotivamente sensibile, tanto che da giovane era una cosa difficile da sostenere perché se entravo in una stanza di piena di persone mi caricavo immediatamente delle tensioni emotive altrui, al punto che il mio corpo si irrigidiva e mi veniva un mal di testa istantaneo. Nel corso degli anni ho imparato a controllare questa sensibilità, ciò che si potrebbe chiamare "la maledizione dell'artista", e a usarla come strumento quando fotografo. Fare arte, e in particolare arte visiva, è stata la mia fuga verso un mondo che accettava la vita e le sue molteplici forme di espressione lontane dalla nostra rigida scatola di normalità con tutto il suo impianto di facciata e le sue finzioni. Gli artisti che probabilmente mi hanno influenzata di più sono stati i pittori. Ho sempre sentito una profonda affinità con la malinconia e l'oscurità espressiva di pittori come Edward Munch, Goya e Anselm Kiefer.
Landscape Stories: Potrebbe descrivere le sue prime esperienze con la fotografia, sia come spettatrice che come artista? Come ha scoperto la fotografia come mezzo di espressione preferenziale?
Thilde Jensen: Innanzitutto, prima della fotografia mi sono innamorata del cinema e sono andata all' European Film College in Danimarca. Ho scritto e diretto due cortometraggi che erano entrambi surreali: l'ultimo è stato girato su pellicola 16mm in bianco e nero, un surreale giallo di amore e omicidio che aveva alcune somiglianze visive con l'universo surrealista di Luis Buñuel e Salvador Dalí di "Un Cane Andaluso". Alcune delle scene del film, che si chiamava "My Love I Do", erano visivamente piuttosto speculari e in seguito mi resi conto che la mia forza stava nel creare queste scene che non si inserivano propriamente nella tradizionale narrazione cinematografica. In quel periodo un mio amico mi ha fatto conoscere alcuni libri fotografici di Diane Arbus e André Kertész e ho apprezzato il potere dell'immagine singola nel saper raccontare una storia o nel creare questi mondi visuali in cui avrei potuto abitare. Così ho deciso di prendere lezioni di fotografia e imparare gli aspetti tecnici della fotografia. In uno dei primi compiti come studentessa di fotografia, sono finita a fotografare in un bagno pubblico sotterraneo. Si è scoperto che questo bagno era un ritrovo per drogati e sono riuscita ad entrare in confidenza con loro e fotografarne alcuni mentre si stavano facendo. La mia tecnica fotografica era piuttosto scarsa, ma sono riuscita a scattare le mie prime foto molto sgranate, ma intense. Penso che sia stata questa esperienza a convincermi che la fotografia era il mio mezzo e che la realtà era più interessante della finzione. I miei insegnanti mi hanno fatto conoscere Nan Goldin e William Eggleston e ho capito subito che dovevo imparare a fotografare a colori.
Landscape Stories: Potrebbe descrivere la sua esperienza su come fotografare un posto in cui non è mai stata prima?
Thilde Jensen: Per il mio ultimo progetto sui senzatetto in America, "The Unwanted", spesso sono entrata in ambienti e luoghi che erano per me territori nuovi e all'inizio quando entro in una nuova location sono sempre un po' ansiosa. Di solito cerco di avvicinarmi a qualcuno per strada, di presentarmi e poi non ci vuole molto prima che io abbia fatto nuove amicizie. Appena tiro fuori dalla borsa la macchina fotografica e faccio qualche scatto preparatorio, le cose mi sembrano più facili e torno a essere solo la ragazza con la macchina fotografica che sorride molto. Così so che quando sarò di ritorno non mi vedranno più come un'estranea. Nelle aree urbane che sono facilmente accessibili in auto, a volte compio un sopralluogo per capire meglio come stanno le cose. Quando mi sento a mio agio in uno spazio, posso iniziare a lavorare di più come fotografa. Ciò significa prestare attenzione a cose come la provenienza della luce, a che ora del giorno avviene, allo sfondo, alla composizione, ai colori e, probabilmente la cosa più importante, a sentire il luogo e le persone.
Landscape Stories: Come descriverebbe la sua voce/linguaggio fotografico e il suo modo di lavorare/il processo creativo? Quanto è importante il lavoro preparatorio? Le sue foto sono premeditate o istintive?
Thilde Jensen: Penso sia difficile vedere il proprio lavoro oggettivamente, ma il mio processo creativo è profondamente radicato nell'emozione e sono abbastanza decisa su alcuni aspetti di ciò che vedo e sento. Non sono molto brava a creare immagini che portano con sè un canone di bellezza. L'aspetto estetico delle mie immagini è qualcosa con cui mi sono confrontata. Quando ero giovane vedevo la bellezza nell'arte come una distrazione, un indicatore che ci fosse qualcosa di superficiale senza un significato più profondo. Ricordo di aver trovato su una bancarella di libri per strada il memoriale di Viktor Frankl sull'Olocausto - "L'uomo in cerca di senso" - e c'era un passaggio in cui descriveva l'intensa bellezza dei tramonti nel campo di concentramento. La lettura di questo libro mi ha profondamente impressionato e ha iniziato ad addolcire il mio rifiuto della bellezza. Non sentivo più di essere manipolata da una visione materialistica del mondo che cercava di vendermi qualcosa nel momento in cui questa arrivava in una bella confezione.
Quando in seguito mi sono gravemente ammalata di Malattia Ambientale (Environmental Illness), il mondo e il mio starci dentro sono diventati intensamente dolorosi, ma la percezione della bellezza naturale che mi circonda, specialmente la bellezza della luce, si è intensificata. A quel punto ho iniziato ad usare la luce naturale nelle mie immagini ogni volta che fosse possibile e ora capisco che a volte le esperienze più belle si verificano quando siamo nei luoghi più oscuri. Da allora sono arrivata ad accettare la bellezza del mio linguaggio visivo come un necessario contrasto con gli scenari spesso difficili e dolorosi con cui le mie immagini si confrontano.
Il mio processo creativo è stato piuttosto diversificato per i vari progetti che ho affrontato. Per il progetto "The Canaries", sulle malattie ambientali, ho viaggiato visitando persone nelle loro case o campeggi. Dato che molte delle immagini sono state scattate all'interno, ho sistemato alcuni flash e poi abbiamo collaborato in modo che si potesse quasi considerare una sessione di terapia per ricostruire una scena della loro storia. Questo nella speranza che in qualche modo si potesse animare e che ne emergesse un quadro. Per "The Canaries" ero personalmente coinvolta, quindi conoscevo la storia che stavo provando a raccontare. Stavo semplicemente cercando i pezzi che mi avrebbero aiutato a rivelare questa difficile storia sul dolore e la malattia, causata da elementi invisibili negli ambienti come vapori di sostanze chimiche tossiche, profumi, prodotti per la pulizia, pesticidi o sostanze chimiche presenti nei materiali da costruzione o nelle radiazioni elettromagnetiche dei telefoni, torri cellulari, Wi-Fi e altro ancora. A volte buttavo giù piccoli schizzi per visualizzare un'immagine prima della realizzazione, ma spesso queste idee non rappresentavano nulla di importante. Quando ero in viaggio per il progetto "The Canaries" dormivo fuori dalla mia auto e restavo con le persone per diversi giorni, così ho avuto il tempo di osservare le loro routine quotidiane e alcune di queste persone le ho incontrate più volte. Spesso mi è capitato di vedere qualcosa che qualcuno stava facendo e chiedevo loro di ripeterlo e questo gesto è diventato poi l'immagine, poche volte invece le situazioni si sono manifestate proprio davanti a me. Come l'immagine di Craig al telefono nella sua macchina al mattino presto.
Il mio approccio al progetto "The Unwanted" è stato molto diverso, ho fotografato per la maggior parte in strada, non sapendo dove mi avrebbe portata la storia. Sapevo quello che volevo, ossia che le immagini si percepissero come autentiche, catturando l'energia inquieta della vita in strada combinata con la pazienza e i dettagli caratteristici della mia vecchia fotocamera medio formato. Quasi subito è diventato evidente che cercare di mettere in posa qualcuno non funzionava, quindi dovevo trovare un nuovo modo di fotografare. Quasi come in una danza, aspettando le intime pause tra le parole, facendomi guidare dal movimento e dall'emozione delle persone che ho incontrato. Come fotografa sono interessata a come viviamo la nostra realtà e ho sempre gravitato attorno alle realtà che si trovano al di fuori della normalità, dove mi sento maggiormente a casa. Per me era importante non dare una connotazione romantica o estetizzare troppo l'esperienza delle persone senza fissa dimora che incontravo. Al contrario, ho cercato di essere quasi come uno specchio senza filtri che riflette quello che vede, un'esistenza dura e spesso insopportabile, piena di traumi e di abbandono.
Per i primi due anni del progetto "The Unwanted" ho fotografato a Syracuse, nello stato di New York, non troppo lontano da dove vivo. Passavo il tempo lì con i senzatetto ogni volta che avevo soldi per le pellicole e il tempo lo permetteva. Alcune persone ho avuto modo di conoscerlo abbastanza bene, come James che ho seguito per anni. Ho anche fotografato molto a Las Vegas e questo è stato un processo molto più intenso perché sono rimasta lì per periodi di tempo più brevi e ho dovuto fotografare ogni giorno. Non avevo mai fotografato così prima ed è stato davvero estenuante. Ogni mattina mi alzavo alle 5 del mattino per essere pronta a fotografare all'alba. Non avevo idea di chi stavo per fotografare, ma alla fine della giornata avevo impresso molte pellicole e mi sentivo sopraffatta da tutte le persone e da tutte le sensazioni che avevo provato e in cui mi ero sentita coinvolta. Dopo una settimana del mio soggiorno a Las Vegas stavo raggiungendo il punto in cui non riuscivo quasi a sopportare tutti gli incontri tristi e le dure realtà dell'essere in strada e avrei voluto solo andare a casa. Sapevo che questo era esattamente il luogo emotivo in cui dovevo essere per fare foto dure sulla condizione dei senzatetto.
Fotografo da una posizione di estrema empatia. La mia capacità di sentire le altre persone, come ho detto prima, è sempre stata alta e ora la uso quando prendo la fotocamera. Per quanto mi riguarda, per essere in grado di scattare una foto di qualcuno o qualcosa devo prima sentirli, altrimenti non riesco davvero a vedere cosa sto fotografando e le immagini finiscono per essere poco interessanti.
Landscape Stories: Il 2-10% della popolazione umana in tutto il mondo ha sviluppato una condizione invalidante denominata Sensibilità Chimica Multipla (Multiple Chemical Sensitivity -MCS) o Malattia Ambientale (Environmental Illness - EI). L'EI è una condizione in cui il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale vanno incontro a reazioni estreme se esposti a piccole quantità di sostanze chimiche quotidiane come profumi, prodotti per la pulizia, scarichi delle auto, stampati, materiali da costruzione o pesticidi. "The Canaries", il suo primo libro, è partito dalla sua biografia personale. Può parlarcene un po'di più?
Thilde Jensen: Vivevo a New York quando mi sono gravemente ammalata con ciò che ho appreso in seguito essere Malattia Ambientale o Sensibilità Chimica Multipla. All'improvviso il paesaggio urbano in cui vivevo senza problemi si trasformò in un campo minato tossico e presto fui costretta a lasciare la città per vivere in una tenda nei boschi. In seguito ho vissuto due inverni in Arizona dormendo per lo più all'aperto. Per sette anni ho usato un respiratore ogni volta che entravo nel mondo creato dall'uomo. Non potevo usare un computer e avevo un telefono di legno dove tubi per l'aria trasportavano il suono in modo che non ci fosse elettronica nella cornetta del telefono vicino alla mia testa. Questo è stato un momento estremamente difficile per me e dopo un anno dall'inizio della malattia ho iniziato a documentare la mia vita. All'inizio riprendere in mano la macchina fotografica era solo un modo per affrontare l'incubo surreale in cui si era trasformata la mia vita e il profondo isolamento e la solitudine che provavo, ma incontrando più persone che soffrivano come me, tutto è confluito in quello che sarebbe stato il progetto "The Canaries". Sette anni dopo - in una certa misura - ho avuto la fortuna di riprendermi, in modo tale che ora posso stare di nuovo nel mondo senza maschera e usare un computer. Ciò non significa che non sono più sensibile ma ho trovato dei sistemi per destreggiarmi nel mondo in modo da non ammalarmi troppo.
Landscape Stories: Nel suo libro, possiamo vedere un paio di autoritratti realizzati in privato. Come pensa che la fotografia possa aiutare nell'esplorazione dell'individuo e nella comprensione della società? Quanto è importante questo processo per l'esplorazione di se stessi, per la scoperta delle sue emozioni intime e per concentrarsi sui suoi comportamenti futuri? In che modo la fotografia è utile?
Thilde Jensen: Di solito non mi piace essere davanti alla macchina fotografica, ma con "The Canaries" sono diventata improvvisamente parte della storia e sono rimasta sola la maggior parte del tempo, quindi ho iniziato a farmi autoritratti. Ho scoperto che girare la fotocamera su di me era difficile non solo per i problemi pratici di non poter essere contemporaneamente davanti e dietro l'obiettivo, e dovendo usare lunghi cavi per lo scatto. Solo due dei tanti autoritratti che ho fatto sono finiti nel libro, ed è ancora molto difficile per me guardare quello che mi ritrae nella mia tenda perché è stato un momento della mia vita molto doloroso e disperato. Condividere la mia solitudine e vulnerabilità con il mondo in quel modo è stato inizialmente scomodo, ma mi è sembrato importante soprattutto perché stavo chiedendo ad altre persone di condividere le loro battaglie più intime. Mi è sembrato giusto non solo nascondermi dietro la macchina fotografica come osservatore, ma anche far parte della storia. Ho scoperto che il processo di fare autoritratti era pieno di tristezza perché mi costringeva a raggiungere davvero il nucleo del dolore emotivo e fisico racchiuso nella mia vita, ma allo stesso tempo era anche liberatorio perché ero in grado di esprimere la mia situazione in un'immagine che si concretizzava in una forma visiva. Penso che il processo creativo possa essere molto salutare non solo per l'artista ma per la società in generale. La creatività è come una forza della natura che scorre continuamente e si muove sempre trovando nuovi percorsi, in grado di superare qualsiasi ostacolo. La rigidità sembra essere la causa della maggior parte dei conflitti umani. Penso che molte persone vivano nella paura dell'incertezza e del cambiamento e si aggrappano a una prospettiva rigida molto limitata. Penso che come artisti e fotografi possiamo dare il nostro contributo nel mostrare la realtà davvero come una costellazione fluida che costantemente ridefiniamo e modelliamo. Il nostro mondo oggi ha una cultura visiva velocissima, in cui le immagini sono ovunque sia in termini buoni che cattivi. Ritengo che come autori possiamo contribuire ad aggiungere sfumature e livelli di complessità a questa nuova era visiva in cui viviamo e penso che la battaglia su come vediamo la nostra realtà sia più importante che mai.
Landscape Stories: Ha viaggiato nel deserto del sud-ovest americano, dove molte persone con malattie ambientali vivono come rifugiati da un mondo chimico ed elettrico. Come sceglie i luoghi che fotografa? Come pensa che questi luoghi in qualche modo abbiano influenzato il suo lavoro? In che modo queste preoccupazioni influiscono sul modo in cui lavora?
Thilde Jensen: Il sud-ovest americano è diventato un rifugio per molte persone che soffrono di gravi malattie ambientali perché il deserto offre ancora luoghi remoti e disabitati dove è possibile scappare dai pericoli dell'inquinamento chimico e delle torri dei telefoni cellulari dei vicini. Alcune di queste aree sono diventate quasi delle comunità di persone sensibili all'ambiente. Era ovvio che questo sarebbe stato il posto dove ambientare una grande parte della storia del progetto "The Canaries". Ho sempre trovato il deserto come un luogo molto diverso per molti aspetti, è un ambiente molto duro ma mantiene anche questa forte bellezza cosmica, e una presenza che ti rende più umile. Ho trascorso molte notti dormendo a terra sotto il cielo guardando le stelle, sentendomi connessa con questo vasto universo sopra di me e credo che tutto ciò abbia influenzato le immagini e come il progetto del libro si sia concretizzato. Molte delle immagini del libro "The Canaries" sono ambientate nel deserto e penso che l'ambiente diventi quasi un personaggio a sé stante aggiungendo un po' di atmosfera post apocalittica e pionieristica occidentale a tutto questo. Ho guidato per due volte in tutto il paese per il progetto "The Canaries" e il viaggio è diventato parte del racconto poiché è parte della storia di molti che in questo modo cercano di trovare un posto che non li faccia ammalare.
Quando ho iniziato il progetto "The Unwanted" a Syracuse, New York, dove molti senzatetto vivono sotto o intorno a una delle cadenti autostrade sopraelevate che attraversano il centro, queste sono diventate parte della storia quasi come monumenti di un impero caduto.
Landscape Stories: Potrebbe dirci qualcosa in più sulla creazione del libro "The Canaries"? Le spiace spiegare rapidamente ai nostri lettori perché ha scelto di realizzare questo libro e cosa spera di ottenere?
Thilde Jensen: Non è passato molto tempo dopo l'inizio del progetto "The Canaries" che ho iniziato a pensare che avrebbe dovuto essere un libro. Le mostre in galleria sono ovviamente un ottimo modo per vedere da vicino le fotografie, ma sono temporanee e, a meno che tu non sia un grande nome in mostra in un posto grande, è probabile che non troppe persone vedranno il tuo lavoro. Il libro fotografico ha il vantaggio di durare molti, molti anni e con ciò può agire sia come documento storico che come opera d'arte. Ho spedito il libro in tutto il mondo e amo l'intimità di sedermi con un bel libro di foto nel comfort di casa mia. Per la serie "The Canaries" avevo a che fare con una storia personale che era in gran parte sconosciuta e ho pensato che mi si stava dando l'opportunità e l'obbligo di comunicare al mondo una storia importante. Speravo che il libro e le mie immagini aiutassero a portare consapevolezza relativamente al mondo tossico che abbiamo creato e alle molte persone che soffrivano a causa di questo, ma sapevo che le forze contro cui mi opponevo, come l'industria farmaceutica e chimica, sono troppo potenti per me per creare qualsiasi cambiamento significativo. Invece quello che mi ha fatto andare avanti è stata l'idea che almeno le generazioni future sarebbero state in grado di guardare indietro e sapere che noi eravamo qui in modo che la nostra vicenda non venisse scritta fuori dalla storia.
Landscape Stories: Ha un metodo di lavoro che segue per ogni serie o varia per ogni progetto diverso?
Thilde Jensen: Se per metodo sta pensando al mio pensiero e approccio più concettuale a un nuovo progetto, allora è stato lo stesso per gli ultimi progetti. Qualcosa spinge il mio interesse iniziale per un argomento. A volte un'immagine da un progetto conduce a quella successiva, ma di solito viene da qualcosa a cui non riesco a smettere di pensare. Comporta molte ricerche e numerosi elenchi con idee, indizi, argomenti, gruppi o luoghi, idee che desidero esplorare e che da lì crescono. All'inizio il concetto è spesso molto ampio e si muove in tutte le direzioni contemporaneamente e poi, in qualche modo nel caos di tutto, emerge la trama o la struttura del progetto.
Landscape Stories: Riferendosi al suo lavoro "The Unwanted", quanta importanza attribuisce all'approccio emotivo di questo particolare gruppo di persone ignorate dallo sguardo della società? I senzatetto in America ci ricordano l'isolamento e la vulnerabilità e la vita delle persone private dei loro diritti, persone che non sono né elettori né consumatori. Cosa trova di straordinario nelle storie di questi uomini e donne?
Thilde Jensen: Penso che l'unica cosa che mi ha fatto tornare al progetto "The Unwanted" è stata l'umanità spogliata, spesso cruda, che ho incontrato con i senzatetto per la strada. Ho trovato un'onestà nella lotta umana, e molte delle loro storie di vita che sono state delle epiche lotte senza fine. Storie di vita piene di traumi e di abbandono, eppure c'era un vero apprezzamento per le relazioni umane senza tutte le facciate e i giochi di potere che altrimenti spesso sono messi in atto nei rapporti interpersonali. Sapendo dalla mia vita che tutto può essere facilmente capovolto, non è difficile per me vedere come puoi finire per strada, che questo avrebbe potuto succedere anche a me. Penso che molte persone in America pensino che i senzatetto siano loro stessi la causa della loro condizione, ma io non la vedo così. Sono arrivata a questa storia cresciuta e nutrita dai valori umanitari della socialdemocrazia danese e sono da tempo preoccupata per il costo sociale del sistema capitalista americano. I senzatetto rappresentano per me una conseguenza molto tangibile della crescente divisione tra ricchi e poveri.
Landscape Stories: Quanto l'immagine finale proviene da lei o dalla persona che sta fotografando? Pensa che sia importante interagire e comunicare verbalmente con i suoi soggetti fotografici prima dello scatto?
Thilde Jensen: Generalmente non mi piace fotografare persone senza il loro permesso e per "The Unwanted" mi sembrava ancora più importante. So che molte delle fantastiche immagini di street photography sono state create scattando non visti, ma questo non è il mio stile. Detto questo, a volte vedi una foto e sai che se chiedi prima il permesso il momento se ne sarà andato, quindi se mi sento coraggiosa scatto la foto e chiedo il consenso più tardi, ma mi fa sempre sentire a disagio nel farlo in quel modo. Per me il momento fotografico è spesso una collaborazione tra la persona che fotografo, me stessa e la fotocamera. Ciò che ne consegue è dare a qualcuno la tua piena attenzione, vederli davvero e poi cercare di tradurlo in un'immagine.
Landscape Stories: L'uso della luce è molto importante. La luce aiuta a creare questa storia particolare? In che modo la sua ricerca personale è cambiata nel tempo e perché ha deciso di documentare questo particolare aspetto dell'America contemporanea? In che modo un fotografo ottiene la fiducia dei suoi soggetti in questo tipo di situazioni?
Thilde Jensen: Queste sono molte domande racchiuse in una sola. Nel corso degli anni mi sono innamorata della bellezza della luce, specialmente l'ora d'oro quando il sole è più vicino all'orizzonte. Poiché nella serie "The Unwanted" le immagini, per la maggior parte, sono state scattate per strada, sono stata in grado di utilizzare la luce naturale che preferisco, anche se questo limita il dove e quando si può fotografare, specialmente quando si lavora a colori e si usa la pellicola. La luce è essenziale per la vita e per la fotografia e trovo che più di ogni altra cosa crei l'atmosfera per una foto, e questo è stato importante per la serie "The Unwanted". Essere senzatetto significa stare fuori per la maggior parte del tempo o tutto il tempo se si dorme in strada, quindi mi sembrava giusto che la luce e le condizioni meteorologiche facessero parte della storia. I dormitori ti obbligano ad uscire alle 7 ogni mattina, e per le persone che dormono fuori in strada le 7 del mattino è l'orario in cui spesso i poliziotti o i negozianti chiedono loro di liberare il marciapiede, e alle 7 spesso inizia la distribuzione di cibo alle mense pubbliche, quindi all'alba un sacco di persone si sveglia e iniziare a muoversi, proprio quando la luce spesso è molto cinematografica. Per quanto riguarda la fiducia di qualcuno, ciò che funziona per me è essere sincera e predisposta a condividere con altre persone, essere una buona ascoltatrice e soprattutto attenta.
Landscape Stories: Quali libri sulla fotografia consiglierebbe? Quali libri sente vicini o influenti in relazione ai suoi "The Canaries" e "The Unwanted"?
Thilde Jensen: Mi viene in mente il libro di John Gossage "The Thirty-Two Inch Ruler". John è un mio buon amico e mi ha insegnato la maggior parte di ciò che so sull'arte di realizzare libri fotografici. John naturalmente è un maestro quando si tratta di libri fotografici e ha una lunga lista di libri fantastici alle spalle e ora continua ad aggiungerne di nuovi ogni anno. Un altro preferito, "Ravens" di Masahisa Fukase e poi "Guide" di William Eggleston che per molti aspetti è stato importante per il modo in cui è nato il libro "The Canaries". Quando ho iniziato "The Unwanted" mi ero appena imbattuta nel libro "Drum" del fotografo danese Krass Clement, che per la maggior parte è stato scattato in poche ore in un piccolo pub in Irlanda. Il libro è quasi una lunga sequenza di immagini di questi vecchi che bevono, dove un uomo sembra essere spinto fuori, lasciato a se stesso. Questa modalità mi ha davvero ispirata e ho pensato che "The Unwanted" avrebbe dovuto avere alcune sequenze più lunghe per restituire ritratti più complessi e completi, ma non sono mai stata in grado di creare lunghe sequenze che funzionassero bene anche se qualche residuo di quell'idea si trova ancora all'interno.
Landscape Stories: Quali sono i suoi piani per il prossimo futuro? Che cosa si aspetta nel 2019, fotograficamente o in altro modo?
Thilde Jensen: In questo momento sto dando gli ultimi ritocchi al libro "The Unwanted", che è pronto per andare in stampa in Danimarca all'inizio di giugno, quindi questo è il mio obiettivo principale. Nel corso di quest'anno poi spero di potermi davvero tuffare nel mio prossimo progetto chiamato "Tomorrow" che riguarderà il nostro futuro.
Il fotolibro "The Unwanted" sarà pubblicato a Settembre 2019.
Intervista a cura di Gianpaolo Arena
Traduzione a cura di Christian Tognela