Nel nostro iniziale orientamento visivo, abbiamo tratto ispirazione da quella dimensione di esperienza immediata che Szarkowski aveva individuato come la qualità di maggiore rilevanza della fotografia giapponese, di cui nel 1974 curò insieme a Yôji Yamagishi la prima grande mostra realizzata fuori dal paese, al MOMA di New York. Quella che presentiamo è una mappatura emozionale che, come un sasso gettato nell’acqua, rivela una piccola parte del suo fondale e crea un’onda che si allarga a cerchi concentrici: da progetti di autori fatti di delicati equilibri fra autonomia espressiva e rapporto complesso con la fotografia occidentale, ci siamo spinte alla ricerca delle loro radici con figure che hanno trovato espressione in un periodo estremamente vitale, che prende avvio dal secondo dopoguerra, e che sono qui presentate anche con lavori più recenti.
Yôji Yamagishi, sempre in occasione della mostra del MOMA, sottolineava il fatto che “i fotografi giapponesi portano di solito a compimento un progetto nella forma libro, creando una serie attraverso un certo numero di fotografie che hanno in comune un soggetto, un tema, un’idea.” Questa dinamica molto aperta di sviluppo del lavoro, poco legata a una rigorosa impostazione preliminare di progetto, continua ad essere presente anche nei lavori realizzati dalla nuova generazione di autori, che presentano molti punti di tangenza con la ricerca fotografica di questo versante del mondo, caratterizzata da astrazione, formalismo, sperimentazione, in un orizzonte di analisi e rielaborazione degli elementi alla base del linguaggio fotografico e delle sue contaminazioni con le nuove tecnologie e gli altri media.
Non mi considero esperta di fotografia giapponese. A me è arrivata prima Rinko Kawauchi che Daido Moriyama e dopo ancora la magia di Suda e Shibata. La fotografia giapponese è stata per me prima di tutto quella femminile, empatica, legata al corpo e alla quotidianità, quella di Kawauchi, Utsu, Shiga, a un certo bilanciamento di ritmi e toni di colore, che fa pensare all’ikebana più che alla visione concitata degli anni 70, invasa di bianchi e neri densi, nel continuo dibattersi di corpo fisico e corpo urbano. Da Moriyama e tanti altri fotografi giapponesi, ho imparato a esplorare, a espandere i confini del visivo, a guardare con più attenzione, e soprattutto che la fotografia è ovunque. Ho sentito la fame di fotografare, il rivolgersi alla realtà in un dialogo vorace, da Narahashi a Nakahira, la fotografia si muove, fruga, esce nel mondo – e con la stessa curiosità si muove nel linguaggio e lo trasforma. Non importa il concetto da svolgere e verificare, la fotografia è uno dei tanti modi per interrogare il reale, per misurarsi, raccogliere, per poi vedere cosa è rimasto impresso – immagini come pesci nella rete. Ci muoviamo qui dai maestri ai giovanissimi senza un filo, una gerarchia, girovaghi indiscreti in un paesaggio visivo cangiante, che si scompone e ricompone attraverso i suoi cliché e le incursioni e interferenze della fotografia internazionale. Fotografie immediate sì, fisicamente più vicine, grazie a un approccio sinestetico meno vincolato al primato della percezione visiva. Associazioni dì immagini che passano forse più attraverso la pancia, la pelle, il respiro che per le strutture del pensiero logico linguistico.
— Fiorenza Pinna
Chiudere gli occhi e far emergere delle immagini associate a un pensiero semplice. Cosa mi viene in mente quando penso al Giappone o, più precisamente, alla fotografia giapponese? Quali sono le fotografie che mi hanno colpito, che più mi sono rimaste impresse, che più hanno cambiato il mio modo di vedere? Takuma Nakahira, anni dopo la pubblicazione di For a Language to Come -pietra miliare della fotografia e dell’editoria giapponese- mise fortemente in discussione le immagini del suo libro, la cui intenzione era scardinare l’estetica visiva del proprio tempo, e si dedicò a una fotografia, spesso a colori, da poco protagonista di un libro editato da Takashi Homma. La naturalezza di questo cambiamento è proporzionale alla profondità del pensiero critico che ne è alla base. Una caratteristica comune alle immagini di tutti gli autori qui presentati, che sembrano muoversi all’interno del medesimo spazio visivo, in un’alternanza di pieni e vuoti, contemplazione e movimento, ma soprattutto fatto della stessa seria leggerezza.
— Chiara Capodici
Special Edition a cura di 3/3.