Vincitore al SI Fest 2012 del premio Open Your Books, assegnato ad autori di libri fotografici autoprodotti, Dust è il primo libro di Michele Cera.
Dedicato al volto dell'Albania, è in realtà il libro raccoglitore di tutti i volti dell'Albania ritratti lungo quella striscia polverosa di terra affacciata sul Mediterraneo. Michele Cera decostruisce l'ideologia del racconto lineare per restituirci in un unico frame il catalogo dell'universo umano del popolo albanese. 37 fotografie ma un'ampia letteratura concernente la questione della marginalità, geofisica e antropica in totale mimetismo.
Si tratta di un'ordinata sequenza d'immagini la cui struttura compositiva è sempre identica, si articola cioè attorno alla figura geometrica del quadrato dentro il quale la figura umana non solo vi abita, ma è resa unica e tattile nel continuo rimando tra uomo e paesaggio circostante, entrambi assolutamente presenti ma precari.
Mentre le città scompaiono nell'universale anonimato topografico – così come i soggetti si sottraggono allo sguardo deciso della camera – questi fotogrammi prendono in considerazione l'ambiente urbano innanzitutto come ambiente umano e poi come terreno di un gioco di partecipazione tra l'autore e il paesaggio, attivandolo di compresenza e compenetrazione.
Questa forte immersione del narratore onnisciente è giustificata e difesa dalla volontà dello stesso Cera di consegnarsi alla memoria dei suoi nonni che hanno cresciuto i genitori in Italia dopo la seconda guerra mondiale.
Un libro dentro cui camminare tra le rovine di un'Albania (o un'Italia?) post bellica con il linguaggio sovraesposto della fotografia e di quel sentimento autobiografico che tiene tutto insieme come una rilegatura.
Intervista
Valentina Isceri: Puoi dirci com'è nata questa storia?
Michele Cera: Mi verrebbe da dire che è nata nel momento in cui misi piede per la prima volta in Albania, nel 2007. Allora ero al seguito dell'associazione Ingegneria Senza Frontiere di Bari ed ero spinto più che altro dalla curiosità verso un Paese così vicino alla mia città e al tempo stesso così lontano. Non posso dire di aver avuto in mente, all'epoca, alcun progetto fotografico, né sapevo che vi sarei tornato molte altre volte ancora.
Valentina Isceri: La linea di "polvere" che separa o unisce ulteriori confini geografici tra Albania e Italia (dove l'Albania sembra da sempre anelare al sogno italiano e l'Italia inverosimilmente riconoscersi nel proprio immaginario degli anni 80) sembra segnare anche un'ulteriore dualismo tra distanza e prossimità. Ovvero, l'azione progressiva di lontananza-vicinanza-lontananza operata dall'autore rispetto al soggetto fotografato è perfettamente tangibile nella successione delle pagine del libro. Perciò mi chiedo: se e come sei entrato in contatto con questi protagonisti? O possiamo definirli a margine rispetto a un forte senso di cenere, sabbia e terra che governa la scena?
Michele Cera: Diciamo che li ho usati come figure protagoniste inconsapevoli del mio tentativo di ricostruire un immaginario che è quello del secondo dopoguerra. La dimensione più strettamente sociale o psicologica, che probabilmente avrebbe richiesto una distanza diversa, mi interessava meno. La dialettica tra distanza e prossimità, nel caso di Dust, è stata comunque molto importante, così come il processo di avvicinamento al soggetto che, nella costruzione del libro, non riesce a compiersi del tutto e si tramuta nel suo opposto.
Valentina Isceri: Parlando delle tue attività, insieme a Federico Covre, con Documentary Platform hai avviato una vera e propria evangelizzazione progettuale sul tema del territorio. Perché per te costituisce una costante tra le urgenze documentarie?
Michele Cera: Il termine "evangelizzazione" non mi fa sentire a mio agio. Non mi sento di appartenere alla "Chiesa" della fotografia di territorio, è certamente un mio interesse ma non l'unico. Ad ogni modo, Documentary Platform ha inteso essere un archivio di progetti fotografici sull'Italia (non solo sulla sua componente strettamente territoriale) realizzati secondo modalità "documentarie". Questo termine, però, non conduce ad una definizione univoca e presenta una serie di problemi teorici di non facile soluzione. Diciamo che ne abbiamo dato una interpretazione molto restrittiva peraltro non scevra, credo, da alcune ambiguità. Certo è che il nostro intendimento era guardare l'Italia attraverso la fotografia, più che guardare la fotografia italiana in sé.
Valentina Isceri: Sono ormai quattro edizioni, quasi cinque, che conduci con il LAB dei seminari sull'architettura urbana e paesaggistica. Il direttivo stesso di LAB è composto prevalentemente da ingegneri e architetti e gli incontri molto spesso raccolgono soprattutto la presenza di studiosi del territorio. Secondo te, c'è qualcosa in particolare che attrae lo sguardo di un architetto/ingegnere? Cioè come mai accade che sempre più spesso un prodotto fotografico dall'acuto valore artistico oggi sia "fabbricato" da una mente quasi algebrica?
Michele Cera: Quello che credo di poter dire è che molto spesso la formazione di un architetto/ingegnere comporta un atteggiamento analitico nei confronti della realtà e un'attitudine al progetto. Inoltre, c'è un'ovvia coincidenza tra l'oggetto di attenzione di un fotografo di architettura e paesaggio e l'oggetto di studio di un architetto o di un urbanista.
Valentina Isceri: Da Andrew Phelps a Zed Nelson a Cuny Janssen e Jan Kempenaers, da Polignano a Mare e Madonna di Grottole a Cisternino/Torre Canne e Molfetta, quattro autori e quattro percorsi diversi per la formazione dei tuoi Southern Photographs: ci lasceresti un breve commento su ciascuna esperienza?
Michele Cera: Credo che i quattro autori finora protagonisti dei quattro workshop abbiano dato ciascuno un contributo diverso a seconda della loro personalità. Tutti però hanno orientato i partecipanti lungo un percorso che ha affrontato i temi dello sviluppo urbano contemporaneo, con accenti di volta in volta differenti, senza tralasciare un approccio che potremmo definire di stampo più sociale, soprattutto nel caso del workshop condotto da Zed Nelson a Cisternino.
Dust è stato pubblicato lo scorso novembre dall'editore tedesco Kehrer con il supporto di Lab – Laboratorio di Fotografia di Architettura e Paesaggio con cui da qualche edizione Michele Cera addestra lo sguardo di numerosi fotografi e appassionati.
Michele Cera è nato a Bari nel 1973 e il suo lavoro è rappresentato in importanti collezioni pubbliche, tra cui il MAXXI di Roma, il Museo del Territorio Biellese, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea. Ha vinto il Premio Fotografico Atlante Italiano 07 ed è co-fondatore di Documentary Platform, un archivio visivo sull'Italia contemporanea.