Landscape Stories: Partiamo con una domanda su 5 John… John Cassavetes, John Fante, John Lurie, John Baldessari e John Fahey. In che misura una certa (contro)cultura americana ha dato forma e alimentato la sua ricerca fotografica?
Sabrina Ragucci:Potrei aggiungere altri John al tuo elenco. Ma questi li hai disposti nell’ordine nel quale li ho incontrati – come fossero i miei amici – al liceo. Il primo John è stato Cassavetes con Shadows. Cassavetes mi interessava non tanto dal punto di vista visivo, ma esistenziale, letterario. Ancora oggi alcune scene epifaniche le ricordo proprio perché sembra che non accada nulla di speciale. Per esempio, in A woman under influence (Una moglie) - la scena in cui Mabel (Gena Rowlands) saltella e aspetta l’autobus che riporta a casa i suoi figli da scuola, o il momento in cui, nella cava di sabbia, i colleghi del marito di Mabel, Nick (Peter Falk), partono insieme verso la casa dei due, per festeggiare l’uscita dall’ospedale psichiatrico della donna. In quei camioncini, che partono avvolti dalla polvere, c’è un’esaltazione dolorosa, semplice. Mi sono sempre piaciuti cinema e fotografia che svelano senza necessità del gesto eclatante, della scena mitica. Quanto a John Fante: preferivo John Cheever. La sua scrittura era attraversata dalla luce, anche quando narrava storie cupe, c’era sempre uno scarto, che non era consolazione, quanto necessità, in qualche modo, di andare avanti.
Landscape Stories: Quanto è stato importante per lei nutrire un immaginario culturale attraverso arte, letteratura, cinema?
Sabrina Ragucci: Conscia che raramente con le domande si allevia l’angoscia.
Text:Landscape Stories: La fotografia può essere documentazione, descrizione, racconto, allegoria… Nella sua opinione quanto è importante che una fotografia sappia anche celare indizi, essere allusiva, avere una forte componente di ambiguità?
Sabrina Ragucci: La fotografia funziona così: cela gli indizi, parla a chi già sa. Meglio ancora, mutuato da Barthes: la fotografia non nasconde ma non parla. Per questo motivo gli artisti non fanno altro che usarla come fosse una scultura. Quello che rimane è un oggetto. A me interessa quando svela, fa diventare reale la realtà e dice qualcosa di se stessa.
Landscape Stories: In questo periodo Palazzo dei Diamanti di Ferrara dedica una personale all’opera di Michelangelo Antonioni. Il regista ferrarese è molto amato da artisti e fotografi, in parte per la sua visione vitrea, fredda e cinematografica della città, in parte per averci invitato a riflettere sul rapporto tra reale e possibile, tra visibile e invisibile. In che misura reputa importanti queste suggestioni per la sua interpretazione fotografica?
Sabrina Ragucci:Tutte le domande presenti nei film di Antonioni sono anche citazioni dal mondo dell’arte e della letteratura, da Pollock a Cortazar, per questo voglio rispondere con un’altra suggestione che richiama le intenzioni del mio lavoro. Kracauer sosteneva che le opere di Franz Kafka potrebbero essere definite dei romanzi di avventura alla rovescia, perché in esse non è l’eroe a dominare il mondo ma il mondo stesso a uscire dai cardini durante le peregrinazioni dell’eroe. Ecco, in tal senso, Professione reporter è stato un film fondamentale per me.
Landscape Stories: Il musicista inglese Robin Rimbaud (aka Scanner), In 52 Spaces (cd Bette 2002), su commissione della British School di Roma, rilegge a modo suo “L’Eclisse”(1962): http://youtu.be/Wm199mmZAoU. Nella Roma sospesa, muta e irreale filmata da Antonioni, Scanner reinterpreta suoni presenti nel film più che le immagini. Dialoghi saltuari, frammenti e rumori di fondo della città vengono manipolati e avvolti da un senso di straniante alterità. Un lavoro quindi che scava nella memoria del suono, un’archeologia sonora non solo fisica ma anche psicologica. In questo leggo uno scarto, una differenza tra un passato dimenticato e il fluire di un futuro digitale. Nel suo libro di recente pubblicazione “The Collared Dove Sound”, esiste un’analoga sottrazione linguistica tra visibile e invisibile? In questo caso in che misura il rapporto con l’assenza, con ciò che non c’è o ha vita altrove, ha definito le immagini del libro?
Sabrina Ragucci: È quello che ho cercato di fare con The Collared Dove Sound: frammenti d’immagini inseriti oramai nella tradizione: da Antonioni a Ghirri. Il suono – il canto delle tortore – nel mio caso era solo evocato nel testo, ma reale durante il tempo di ricerca delle immagini. Come diceva Ghirri il fotomontaggio è già avvenuto, è nel mondo reale, la realtà sta nell’invenzione: la mia e un’altra, quella dello scrittore nello stesso luogo, nello stesso momento. Nel caso specifico, abbiamo trattato un luogo (Cortesforza) che – inventato in letteratura da Giorgio Falco – potrebbe essere collocato in un presente accelerato; le uniche presenze umane nel libro sono quelle narrate dallo scrittore e Giorgio Falco stesso, fotografato da me durante tutto il tempo dedicato al lavoro, cinque anni circa. E d’improvviso il frammento non è più tale, diversamente da Ghirri: sulla base di un mosaico d’immagini costruisco una storia che è sia ciò che c’è che ciò che non è. Per esempio tra ciò che non si vede ma è dappertutto c’è: la politica, la ‘ndrangheta, l’inquinamento, la biografia, ma soprattutto l’inquietudine dell’ordine.
Landscape Stories:Recentemente per l’ennesima volta ho preso in mano “Il Nuotatore”(1964) di John Cheever: http://www.newyorker.com/online/2011/02/14/110214on_audio_enright. Leggendo mi sono tornate in mente le scene del film “The Swimmer”(1964), tratto dal racconto, con Burt Lancaster: http://youtu.be/yIegoQAayFs. Poi questa foto di Stephen Shore: http://stephenshore.net/photographs/B/index.php?page=10&menu=photographs. Come possono coesistere fotografia e scrittura? In che modo le loro connessioni possono rafforzare l’analisi tematica e la trama del racconto?
Sabrina Ragucci:Le parole convivono quotidianamente con le immagini. I fotografi che possiamo definire nostri padri (amati: Eggleston, Shore tra questi) avevano la certezza che non fossero necessarie, le rifiutavano, ma in alcuni casi hanno avuto torto. Non sono quasi mai mancati saggi, testi critici nei loro libri. In ogni caso, le parole hanno spesso sopraffatto il discorso visivo. Laddove non capisco l’immagine, leggo e smetto di guardare. Alle immagini sono associate parole spesso inadeguate. Di recente ho sentito un artista che stimo parlare di fotografia: “il ritratto fotografico deve descrivere l’anima della persona”. Se, per esempio, mi permettessi di semplificare a tal punto la letteratura sarei considerata – a ragione – un’ignorante. Del resto l’accessibilità del mezzo (non del risultato), aiuta il fraintendimento. Alla fine siamo stati costretti a spiegare ai critici cosa intendevamo fare e loro hanno tradotto, interpretato il linguaggio. Per questo motivo, scrivo un testo funzionale alle immagini, faccio il contrario di Sophie Calle che ho molto apprezzato da studente, ma non so se il mio testo rafforza, forse va addirittura da un’altra parte, l’intento è creare una storia circolare che disinneschi il bisogno di altre parole. E poi lavoro spesso con Giorgio Falco, “quando ci mettiamo in azione, agendo, creiamo la realtà”. Per rispondere, almeno in parte alla domanda: nella combinazione di scrittura e fotografie sono interessata specificatamente alla forma libro, eventualmente anche virtuale, non a un’esposizione. In una mostra, invece, le immagini sono tutto quello che serve.
Landscape Stories:Quanto la fotografia le è di aiuto per la comprensione della realtà, per superare delle incertezze sospese, per sciogliere dei dubbi?
Sabrina Ragucci:: Non scioglie dubbi. Diversamente da chi sostiene che la fotografia è una possibilità per vedere meglio, confermo che esiste qualcosa come un eccesso di realtà, il suo ingrandirsi non è più sopportabile, in modo definitivo nei dittici questo dico: mi avvicino, mi sposto: le cose non si confermano, cambiano. “Tutto ciò che esiste, sembra, ci è visibile perché lo percepiamo grazie alla luce riflessa dell’apparenza. Nient’altro è visibile” (Gerhard Richter).