Landscape Stories: Come è avvenuto il suo primo approccio alla fotografia? Quali sono le sue influenze e gli artisti a cui si è ispirata (non solo i fotografi)? Ci sono artisti emergenti che hanno attirato la sua attenzione e che sta seguendo particolarmente?
Cristina Nuñez: Quando avevo 24 anni ho conosciuto un fotografo italiano, ci siamo innamorati e io mi sono trasferita a Milano dove viveva. L’approccio del mio compagno nei suoi ritratti, era quello di utilizzare la fotocamera per catturare la vita e la forza interiori delle persone. Questa attitudine mi ha fatto scoprire ed interessare alle possibilità offerte da quello strumento così potente tanto che la prima cosa è stata quella di rivolgere l’obiettivo verso me stessa. Così ho cominciato a fotografarmi. Poi, dopo 6 anni di autoritratti mi sono sentita pronta a fotografare gli altri e ho prodotto la mia serie “Body and Soul” che ha ricevuto il premio come miglior progetto fotografico dalla Fondazione Studio Marangoni a Firenze. Le mie influenze arrivano soprattutto dai pittori rinascimentali italiani e olandesi (Caravaggio, Rembrandt), ma anche da Egon Schiele e Lucien Freud. Alcuni degli artisti che mi hanno ispirato maggiormente sono fotografi come Richard Avedon, Irving Penn, Diane Arbus, Cindy Sherman, Ana Mendieta, Toni Thorimbert, Elina Brotherus e Tomoko Sawada, oppure video artists come Kimsooja e Bill Viola. Devo ammettere che non seguo particolarmente gli artisti emergenti anche perché ora non voglio avere più influenze da nessuno e preferisco l’idea di fare solo quello che il mio istinto mi dice di fare, non importa cosa fanno gli altri attorno a me. Inoltre quando mi capita di andare ad una mostra non trovo mai nulla che mi colpisca veramente o tanto meno che mi sconvolga, cosa che vorrei succedesse. Vedo troppo virtuosismo tecnico e non abbastanza innovazione o spessore nei contenuti. Tuttavia ci sono degli artisti che mi interessano sebbene alcuni siano praticamente sconosciuti come per esempio Richard Stipl (scultura), Elinor Carucci, Anna Meschiari e Anne De Gelas (fotografia).
Landscape Stories: Riesce a intravedere delle nuove tendenze nella fotografia oggi? Quali sono i fotografi della nuova generazione che la colpiscono di più?
Cristina Nuñez: Mi sembra di capire che la fotografia sta diventando sempre di più qualcosa di personale e intimo. L’attenzione è sempre più rivolta verso l’essere umano, verso la vita interiore ed emotiva, l’introspezione, l’auto-terapia. La cosa mi piace e mi interessa anche perché ultimamente abbiamo assistito ad un abuso di virtuosismo tecnico, troppi paesaggi, troppa fotografia cerebrale ed incomprensibile, tutti modi per fuggire la vita interiore, l’ansia, il dolore universale. Tutti i nuovi fotografi che mi interessano sono donne: Elina Brotherus, Elinor Carucci, Anna Meschiari e Anne De Gelas.
Landscape Stories: Come descriverebbe il suo linguaggio artistico e il processo creativo delle sue opere?
Cristina Nuñez: Io cerco di trasformare il mio dolore e quello degli altri in arte, sia in fotografia che in video. Le nostre sofferenze personali (e in questo includo anche tutto ciò che ci fa male o tutto ciò di cui ci vergogniamo o di cui abbiamo paura) innescano il processo creativo, stimolano il mio inconscio a parlare secondo il linguaggio dell’arte. Il dolore e la sofferenza hanno bisogno di uscire e questo succede automaticamente quando questo processo si mette in moto e quando c’è la giusta sensibilità. Nell’autoritratto tutto questo viene addirittura amplificato proprio per il fatto che stare di fronte ad una fotocamera è una situazione limite: siamo infatti allo stesso tempo autore, soggetto e spettatore. Inoltre, l’autoritratto costituisce l’unico modo per avere l’immagine del creatore nel momento esatto della creazione. In altre parole è il ritratto del nostro io creativo, del nostro io superiore. Quando lavoro ascolto semplicemente quelle che sono le mie emozioni, i miei pensieri e le mie sensazioni fisiche e quello che faccio è solo quello che sento o di cui sento l’impellenza, il che è per altro quello che temo di più. In questa fase, nello stesso momento, definisco il contesto, la cornice, la luce che voglio vedere in quel preciso momento, ricercando una bellezza semplice ma senza spenderci troppo tempo sopra: la bellezza deve manifestarsi spontaneamente dall’interno. Tutto qui. Il mio mondo interiore e la mia capacità di assecondare l’attimo danno solitamente vita a qualcosa che non avrei nemmeno lontanamente immaginato, e solitamente è esattamente quello che cercavo. Il mio obiettivo è che gli altri possano vedersi nel profondo attraverso le mie opere e che queste possano essere comprese (non accettate ma percepite) da chiunque, senza che ci sia bisogno di avere una laurea in arte contemporanea.
Landscape Stories: Ha delle idee da realizzare? Come sviluppa i suoi progetti? Qual è l’aspetto che la soddisfa e ricompensa di più del suo lavoro?
Cristina Nuñez:Le mie idee vengono da esigenze emotive. Quando sento quest’esigenza la custodisco per un po’ dentro di me e rimango in ascolto dei miei desideri. Poi comincio a fantasticarci un po’ attorno: le mie fantasie sono spesso così ardite che ho paura di realizzarle, ma pian piano comincio a lavorarci sopra e comincio ad abituarmi all’idea, tanto che poi quando produco la mia opera sono così entusiasta che la paura viene spazzata via completamente. Il progetto si sviluppa mentre i miei desideri e sogni vengono fuori e che vengono stimolati proprio dal processo stesso. Spesso non sono troppo soddisfatta e penso che potrei fare qualcosa di meglio, sono un po’ pigra nella fase in cui do forma al progetto, l’esposizione/pubblicazione/installazione. Non do molta importanza al tocco finale, ai dettagli, preferisco rimanere in un certo modo grezza. La cosa più appagante nel mio lavoro è il fatto che gli altri riescano a guardare nel profondo di sé stessi attraverso le mie opere, che i miei lavori possano essere capiti da chiunque senza bisogno di essere esperti d’arte contemporanea. Per il fatto che trattano di emozioni umane tutti possono capirne il messaggio.
Landscape Stories: Pensando in particolare ai suoi lavori sui ritratti, quanto dell’immagine finale arriva da lei e quanto dalla persona che sta fotografando? Ritiene che sia importante interagire e comunicare verbalmente coi suoi soggetti prima di fotografarli?
Cristina Nuñez: Un ritratto dice molto di più sulla relazione tra l’artista e il soggetto, o addirittura dell’artista, di quanto non dica sul soggetto in sé. Attualmente il mio interesse non è più rivolto alla ritrattistica, ma piuttosto a ciò che definirei come una sorta di auto-ritratti collaborativi, qualcosa di piuttosto complesso. Posiziono il soggetto sullo sfondo con i miei flash da studio, faccio l’inquadratura e poi gli do delle istruzioni prima di lasciarlo da solo nello studio a fotografarsi usando un telecomando. Il soggetto può fare quello che vuole, compreso non seguire le mie istruzioni, ma ad ogni modo mentre non ci sono verrà prodotta qualcosa di cui il soggetto è completamente non consapevole. Una sola immagine sarà assolutamente perfetta e sorprendente per entrambi. In questo modo abbiamo consentito al processo creativo di creare qualcosa di perfetto, con una bella composizione, bei colori, belle forme, qualcosa che è di fatto espressione umana ma in cui il soggetto non si riconoscerà mai in quanto non ha mai visto il progetto del suo Io superiore, del suo Io creatore. Ovviamente a questo punto se riunisco tutte le immagini ottenute nel progetto del mio Io superiore sono in grado di ottenere un mio punto di vista sull’essere umano: vulnerabile, innocente, smarrito, libero, forse perfino violento ma anche saggio e forte, e in questo riconosco anche me stessa. No, non interagisco mai troppo con i miei soggetti prima di scattare. Sinceramente ho la sensazione che questa interazione allenterebbe la tensione creativa. Ad ogni modo credo che il mio atteggiamento sia più rigido prima degli scatti piuttosto che dopo, ma questo corrisponde anche ad una mia esigenza. Prima che vengano scattate le foto sono infatti più tesa per il fatto che sto entrando dentro il mio processo creativo e questo per me è qualcosa di solenne, di molto serio, una questione di vita e di morte. Devo entrare in contatto con le mie emozioni, il che condurrà il soggetto a concentrarsi sulle sue.
Landscape Stories: Le capita mai di voler tornare sui soggetti che ha fotografato in passato per fotografarli di nuovo?
Cristina Nuñez: Se parliamo degli autoritratti collaborativi che le persone si fanno nel mio studio, cosa che avviene durante i miei workshops e che sono a tutti gli effetti miei lavori, si può succedere, ma non sono io a proporlo, solitamente è il soggetto stesso. Sono loro a tornare perché hanno bisogno del mio metodo per trasformare il loro dolore in arte e per poter percepire la molteplicità della loro identità. Questo è ciò che succede di solito, poi ci sono delle rare eccezioni in cui sono io ad essere interessata a quella persona come per esempio è avvenuto con mia madre.
Landscape Stories: Parte del suo lavoro mostra questi soggetti nudi o parzialmente nudi. Quando lei produce dei ritratti del genere ci sono differenze sostanziali nel suo approccio (e in quello dei suoi soggetti) con le opere? Visto che la nudità è sempre un argomento molto complesso, quale ruolo gioca nel ritratto? Quali sono quei ritratti che in un certo senso deve scattare? Sono stati sempre tutti ricettivi alle sue idee o ci sono state persone che ha dovuto convincere un po’ di più?
Cristina Nuñez: Sono interessata all’essere umano in tutti i suoi aspetti e il corpo nudo enfatizza l’umanità nei miei soggetti, gli aiuta a rendersi vulnerabili, a entrare in contatto profondo con la vita e la morte, con la loro sessualità, con le loro funzioni metaboliche come mangiare o defecare o per esempio a riflettere sulla relazione con la propria madre. Tutto questo aiuta l’autenticità dell’immagine proprio perché conterrà una molteplicità di emozioni e problemi tanto da poter costituire uno sorta di specchio per molte persone differenti che riusciranno a ritrovarsi e rivedersi in quell’immagine. Non ho un approccio particolare e definito. Dipende molto dal momento e dalla persona che ho di fronte. Con alcune persone sono più interessata a vederle nude, quindi chiedo loro di togliersi I vestiti. Nella maggior parte dei casi sono io il mio soggetto e lavoro nello stesso modo. Dopo così tanti anni di autoritratti adoro il mio corpo nudo, la mia faccia, la mia testa rasata. Ci sono stati momenti in cui non ne potevo più della mia faccia. Ora sono assolutamente entusiasta di come sono e appaio, anche se non ho un compagno e gli uomini per la strada non si girano a guardarmi. Ecco perché adesso è essenziale esprimere tutto il terribile, il doloroso, il patetico da cui tutti scappiamo.
Landscape Stories: Nel suo libro “But Beautiful” vediamo degli autoritratti scattati in privato. Si ha l’impressione che costituiscano una sorta di autoterapia. Fino a che punto crede che la fotografia possa aiutare nell’esplorazione dell’individuo?
Cristina Nuñez: Fotografo me stessa fin dal 1988. All’inizio pensavo fossi spinta dalla mia vanità, ma ho presto capito che questa pratica era in grado di innescare la mia creatività e più tardi, durante i miei primi periodi di depressione, ho scoperto che fotografarmi ed esprimere le mie emozioni mi faceva sentire molto bene con me stessa. La macchina fotografica è uno strumento molto potente… Oggi sono molte le persone che lavorano sugli autoritratti, in molti modi differenti, e questo dà indubbiamente molta forza al mezzo. Alcuni si costruiscono un’identità virtuale per mezzo della quale esprimono ciò che vorrebbero essere e attraverso questa identità riescono ad aprirsi al mondo. Altri si fotografano in momenti di dolore e sofferenza per comprendere e condividere il loro dolore. Altri ancora costruiscono dei progetti autobiografici sui quali lavorano per tutta la vita. Io credo che tutti loro riconoscano istintivamente che la fotografia e l’autoritratto in particolare possano aiutarli parecchio: in primo luogo ad affermare la propria esistenza, in secondo luogo ad esplorare tutti i differenti frangenti delle loro vite e a ricostruirne il senso, e infine a ripercorrere le orme di tutte le loro esperienze e a comunicarle agli altri. Ad ogni modo oggi la fotografia è un mezzo molto più accessibile rispetto al passato e permette a tutti di produrre delle immagini accettabili se non addirittura belle in maniera molto semplice anche con le più piccole fotocamere in commercio. In più, la fotografia riesce a rendere visibile l’evoluzione del processo creativo, cosa che ci permette di creare inconsciamente delle immagini sorprendenti. Inoltre, nell’autoritratto ci troviamo ad essere nello stesso tempo autori, soggetti e spettatori in una dinamica in cui l’interazione tra questi tre ruoli spinge il nostro inconscio a parlare il linguaggio dell’arte e ad esprimere qualsiasi cosa abbiamo necessità di dire. Si tratta di uno strumento sorprendente per l’esplorazione e la scoperta di se stessi.
Landscape Stories: Ci parli del suo recente progetto video “La Vie En Rose#1". Partendo dalla morte dei suoi cari lei arriva a descrivere il suo mondo intimo, il suo dramma personale e le sue insicurezze. Qual è l’importanza di questo processo nell’esplorazione di se stessa, nella scoperta delle sue emozioni più intime e quanto l’aiuta a focalizzarsi poi e a concentrarsi nei suoi futuri comportamenti? Perché la sua scelta del titolo è ricaduta su “La Vie en Rose”?
Cristina Nuñez: Adoro usare la mia vita nella mia arte e la mia arte nella mia vita. È un connubio perfetto: l’arte mi aiuta a rapportarmi alle mie emozioni e ai miei drammi personali e questi rendono la mia arte più potente cosicché molte persone possono rivedersi nei miei lavori. Lo faccio da un sacco di tempo e funziona benissimo… adesso meglio che mai, forse perché ora mi sento più libera di fare tutto ciò che sento e voglio. Esprimendo i miei problemi reali e le mie sofferenze e comunicandoli al pubblico mi sento così incredibilmente libera da tutti quei problemi e ho la sensazione di poterli superare e di andare oltre. Non che i problemi scompaiano, certo, ma è come se acquisissero un significato, se cominciassero ad avere un senso. È questo che intendo quando dico che trasformo la merda in diamanti… il mio lavoro su me stessa mi ha aiutata a capire che tutto nella vita è assolutamente perfetto anche se è terribile, sta a noi trovarne il senso e il modo di utilizzare queste esperienze per diventare più forti e più migliori. Il titolo “La Vie en Rose”, come tutti i miei titoli, è arrivato d’istinto e solo dopo ne ho compreso il significato. “La Vie en Rose” è il mio sogno infantile di trovare il mio partner perfetto, il mio principe azzurro, qualcuno da amare alla follia e che mi ami alla follia. Ma visto che l’obbiettivo è raggiungere questo amore quanto meno utopico sento che per raggiungerlo prima c’è bisogno di liberarmi di tutto il marcio che ho dentro, ammettere i miei problemi, il mio lato oscuro, e chi ha orecchie per intendere intenda… pensavo che la persona giusta lo avrebbe sentito immediatamente e si sarebbe fatta avanti, e io non avrei dovuto perdere tempo in storie sbagliate. Ora capisco che le mie confessioni video sono in contrasto con il titolo, ed è per questo che “La Vie en Rose” ha acquistato un significato ironico, ma era qualcosa che dovevo imparare anche se spero veramente di produrre un video che mostri una vera vie en rose prima o poi…
fino ad allora, continuerò a far uscire la mia merda.
Cristina Nuñez – Someone To Love on Landscape Stories
Intervista a cura di Gianpaolo Arena
Traduzione a cura di Mirco Pilloni