Landscape Stories: Ha iniziato a studiare design della comunicazione visiva, arte e fotografia, sociologia. Cosa la ha fatta propendere per la fotografia? In che modo pensa che questi studi hanno influenzato il suo modo di fotografare? Come ha scoperto la fotografia come mezzo di espressione?
Yurie Nagashima: Mi piaceva l’idea di poter realizzare dei film, così a sedici anni, decisi di frequentare una scuola d’arte. Entrai alla Musashino Art University di Tokyo ma non mi accettarono al dipartimento film, video e fotografia. Il dipartimento era nato circa tre anni prima e prima che venisse strutturato c’erano già ampli percorsi di studio delle arti visive. Di conseguenza, visto che alcuni corsi erano rimasti, frequentai quelli di fotografia e film in 16mm.
Come ogni altro teenager mi interessava molto la moda. Nelle riviste ho scoperto tutto il buon lavoro dei fotografi che lavoravano per la moda e la pubblicità. E poi adoravo i film sperimentali e indipendenti da quando avevo quindici anni. Ero anche dentro al mondo dell’arte: ai tempi della scuola passavo la maggior parte del mio tempo nei musei e a teatro.
A scuola mi resi conto che non ero adatta a lavorare come designer perché non mi piaceva lavorare secondo gli ordini che mi venivano impartiti dagli insegnanti, nonostante mi apprezzassero per le mie qualità. Una volta un insegnante, guardando uno dei compiti che avevo svolto, disse: “Faresti meglio a fare l’artista.” Ero assolutamente d’accordo. Per fare il designer devi ascoltare le necessità dei clienti.
A vent’anni ho vinto un premio in un concorso di arte contemporanea. Il lavoro con il quale vinsi comprendeva sei foto e in giuria c’era Nobuyoshi Araki. Così critici e scrittori mi definirono una fotografa. Io ancora non ne sono così sicura ma cerco di non essere imprigionata da nessuna etichetta. È una cosa che non mi piace. Sono andata, subito dopo il college, negli Stati Uniti per preparare il MFA. Studiai fotografia a Calart; quindi di nuovo a scuola per studiare sociologia: cinque anni fa ho terminato il mio MA. Volevo studiare le questioni relative al genere e al femminismo che sono state sempre centrali nel mio lavoro. Era ciò di cui avevo bisogno, ora conosco meglio quel che faccio e mi sembra che il mio sguardo sia più ampio.
Landscape Stories: Dove possono essere rintracciate le radici del suo lavoro?
Yurie Nagashima: A vent’anni un fotografo che mi entusiasmava molto era Robert Mapplethorpe; anche Bettina Rheims. Quindi loro due, direi.
Landscape Stories: Il numero 23 di Landscape Stories, a cura di 3/3, sarà interamente dedicato al Giappone e presenterà il lavoro di Kiyoji Otsuji, Masahisa Fukase, Rinko Kawauchi, Takashi Homma e molti altri. Il libro “Kazoku (Family) la ha influenzata mentre si dedicava al suo progetto “Family” del 1993?
Yurie Nagashima: No, non lo conoscevo.
Landscape Stories: Quali sono i libri fotografici giapponesi degli ultimi anni che ha apprezzato di più?
Yurie Nagashima: Sakiko Nomura’s ‘Nude / A Room / Flowers’ (Publisher: MATCH and Company Co., 2012) and Rieko Shiga’s ‘Rasen Kaigan’ (Publisher: AKAAKA, 2013).
Landscape Stories: Per quanto riguarda “Kazoku“, come si è sviluppato il progetto da quando ha iniziato a scattare? In che modo il progetto è cambiato mentre ci lavorava?
Yurie Nagashima: In giapponese Kazoku vuol dire famiglia, è il titolo che ho dato al libro ma, appunto, è solo un titolo. Non parlerei di progetto, è piuttosto un mio campo di interesse. I miei genitori, quando ero un’adolescente, non erano felici insieme e la mia famiglia era quasi a pezzi. Loro stessi mi raccontavano di quanto fossero infelici; al tempo stesso mi costringevano a mantenere il segreto e a giocare alla famiglia felice. Era difficile per me e non sono riuscita ad essere una buona figlia. Il mio lavoro infatti, agli inizi, aveva lo scopo di smascherare l’ipocrisia del mondo familiare dal punto di vista di un bambino. A nessuno era permesso parlare dei propri problemi fuori di casa, ma potevo fare foto perché loro non avrebbero parlato. Le foto di Kazoku, dagli inizia a oggi, sono inerenti la mia famiglia; con loro è più facile, conoscendoli bene, posso dire fai questo o fai questo tipo di cose. Vale lo stesso per i miei autoritratti. I cambiamenti hanno a che fare con ciò che muta nella mia vita. Ho scoperto che un adulto è solo un bambino più grande! Non siamo mai pienamente adulti. Mi rendo anche conto che i problemi dei miei genitori non erano del tutto colpa loro. Quella condizione buia e profonda nella quale mia madre si infilò sarebbe stata difficile da evitare per qualsiasi altra donna. Quando ero giovane mi dicevo Non diventerò una donna come mia madre, ma ora la capisco. La mia attenzione si sta spostando, voglio raccontare le esperienze e le emozioni di chi non aveva la forza, di ciò che è stato nascosto e proibito per salvaguardare la famiglia. Se una bella famiglia deve essere costruita al prezzo di tanto dolore, è inutile, credo. Non voglio più accusare nessuno, voglio che si sappia ciò che si tende a ignorare, a nascondere, a pretendere che non esista. Penso che ciò che è personale sia politico.
Landscape Stories: La famiglia, la sessualità, il genere, sono parti molto importanti della sua ricerca. Dove trova ispirazione per questi temi? Quanta importanza ha per il suo lavoro l’aspetto antropologico?
Yurie Nagashima: Il mio lavoro credo abbia una certa impronta sociologica; l’antropologia è tutt’altra cosa. Per me è importante scegliere un argomento o un concetto che rimandi a determinate questioni sociologiche, perché sono entrata nel mondo artistico attraverso la mia burrascosa gioventù. Voglio realizzare opere che suscitino discussioni all’interno della società. Questo è il mio obiettivo; che poi funzioni è un’altra storia.
Landscape Stories: “Per me le fotografie sono un modo di esaminare le cose che non capisco e un modo di dare forma a tutte quelle esplosioni senza senso di ispirazione. Che cosa significa “casa” , qualcosa che non capisco affatto, per me? Questo genere di domande sento che ha una grande influenza sul modo in cui scelgo di usare la mia macchina fotografica. Yurie Nagashima.
In che modo la fotografia la aiuta?
Yurie Nagashima: Sono una persona visiva. I miei ricordi sono come fotografie o filmati. Ricordo molto bene momenti precisi, ma mi è difficile tenerli in un ordine cronologico. La mia memoria nel mio cervello è come una scatola di fotografie. Credo che alcune espressioni che usi nelle domande, come superare le incertezze sospese, sciogliere dubbi, comprendere la realtà, siano un po’ troppo per me. Quel che faccio è osservare, riconoscere e accettare. È questo il modo in cui io capisco il mondo.
Landscape Stories: Nell’agosto 2014 lei ha partecipato al Master presso la International Summer School of Photography a Latvia. Ha curato il workshop La Fotografia come una tattica sovversiva : Essere l’altro. Fino a che punto è possibile insegnare la fotografia?
Yurie Nagashima: Se mi fa questa domanda perché ritiene che insegnare a fotografare sia difficile, la mia risposta è sì, lo è. Difficile ma possibile. Se non altro se ne possono apprendere le tecniche. Se la parola insegnamento dovesse suonare eccessiva, la si può sostituire con discutere sulla fotografia. Proprio come in ogni altro genere di studio, è necessario che ognuno pensi da sé.
Landscape Stories: E i suoi prossimi progetti?
Yurie Nagashima: Proprio ora sto lavorando con la madre del mio ragazzo per la prossima mostra. Mi ospita nel suo appartamento a Kobe, per via di un soggiorno residenziale promosso da Kiito (http://kiito.jp/english/). Stiamo facendo un telone con abiti di seconda mano raccolti a Kobe. Al contempo fotografo le donne che vengono a consegnare gli abiti. Tutti questi abiti hanno delle storie e queste donne mi spiegano quali sono i motivi per i quali non possono più indossarli. A giugno. ci sarà una mostra a Kiito. Contemporaneamente sono al lavoro per fare un libro: è basato sulla mia tesi scritta nel 2015 che riguardava il movimento giapponese degli anni novanta Onnanoko Shashin.
[Yurie Nagashima on Wikipedia](Yurie Nagashima on Wikipedia)
Intervista a cura di Gianpaolo Arena